Il 3 novembre 2020 gli sguardi di tutto il mondo si sono rivolti al Nord America, verso quella federazione di 50 stati i cui sviluppi influenzano e determinano le sorti di tanti altri paesi. Le elezioni presidenziali americane sono un evento di portata nazionale e internazionale, soprattutto in un contesto teso e polarizzato come quello di oggi.
I cittadini americani, tuttavia, non sono stati chiamati alle urne solo per eleggere il presidente, ma anche per votare altre istituzioni e referendum di altrettanta importanza.
La presidenza
Il ciclo elettorale appena concluso è stato lungo e combattuto. La rincorsa che ha portato alle elezioni del mese scorso non è stata facile per nessuno dei due grandi partiti statunitensi. Da una parte, i repubblicani al governo erano alle prese con la situazione di emergenza imposta dal Covid-19; dall’altra, gli aspiranti candidati democratici lottavano tra di loro in vista delle primarie. Alla fine, è stato Joe Biden a sfidare quello che era il presidente in carica, Donald Trump. Un’aspra fase di dibattiti ha preceduto la votazione vera e propria che, nonostante risalga a quasi due mesi fa, ha appena consegnato un nuovo inquilino alla Casa Bianca.
I dati hanno mostrato, fin da subito, un chiaro testa a testa. Per questo sono sorte le legittime richieste di riconteggio da parte del candidato meno votato, in questo caso Trump. I riconteggi non sono una pratica inusuale negli Stati Uniti: derivano dal sistema elettorale americano stesso, che stabilisce il vincitore non in base al voto popolare ma a quello collegiale.
Proprio a questo meccanismo si deve il ruolo determinante dei battleground states, quegli Stati dotati di un alto numero di grandi elettori, quindi fondamentali per ottenere la vittoria. Questi, infatti, sono i territori più contesi e nei quali entrambe le parti investono il maggior numero di risorse in fase preelettorale. Inoltre, rimangono sotto i riflettori anche nel periodo successivo alle elezioni, dal momento che in essi un riconteggio che determini lo spostamento di alcune centinaia di voti può rovesciare il risultato finale.
Le contestazioni di Donald Trump, tuttavia, non si sono limitate a questo. Per tutta la durata della campagna elettorale il presidente uscente ha sostenuto una linea di condanna nei confronti dell’avversario, contestando l’esito delle elezioni prima ancora che le schede si trovassero all’interno delle urne. Solo parecchi giorni dopo l’annuncio della vittoria del candidato democratico, Trump ha concesso il trionfo a Biden, passandogli il testimone come 46° presidente degli Stati Uniti d’America. Una vittoria che, anche dopo i riconteggi, non può che essere riconosciuta.
Dagli ultimi dati Biden avrebbe ottenuto un distacco di circa 4 milioni di voti nell’elezione popolare e di 74 grandi elettori al collegio. Tuttavia, questo risultato è netto solo all’apparenza. La grande distanza tra i due candidati è dovuta a differenze microscopiche che si sono verificate, appunto, negli Stati decisivi.
Il parlamento
Il 3 novembre i cittadini americani sono anche stati chiamati a votare per la Camera Bassa e per il rinnovo di un terzo dei senatori. Per quanto riguarda la prima, non è stata riconfermata l’onda blu del 2018: nonostante i democratici abbiano comunque ottenuto la maggioranza, si tratta di una delle più stringate degli ultimi decenni. Questo risultato pone inevitabilmente il Congresso in una condizione problematica, con il conseguente rischio di accentuare ancora di più la tendenza alla scarsa produttività legislativa degli ultimi anni.
Anche al Senato i democratici non hanno ottenuto il risultato sperato: hanno conquistano solo due dei quattro Stati necessari per raggiungere la maggioranza e, inoltre, ne hanno perso uno. Al momento, quindi, alla Camera Alta siedono 50 repubblicani, 46 democratici e 2 indipendenti. I due senatori mancanti per raggiungere i 100 (due per Stato) devono ancora essere decretati. La coppia di seggi vacanti è quella della Georgia, uno degli unici due Stati americani che prevedono un secondo turno di voto. Il ballottaggio si terrà il 5 gennaio 2021.
Se dovessero essere eletti entrambi i candidati democratici si produrrebbe una situazione di pareggio, dal momento che, quando si tratta di votare, i due indipendenti fanno gruppo con la sinistra democratica. Lo stallo sarebbe rotto dal voto della vicepresidente Harris, che sposterebbe l’equilibrio verso l’ala blu del senato, una maggioranza tanto importante quanto fragile.
Le assemblee legislative
Un’altra elezione messa nell’ombra dalla competizione Trump-Biden è quella per i Congressi statali: quest’anno sono state rinnovate 86 delle 99 assemblee totali. Si tratta di un voto di grande importanza che assume particolare rilevanza a causa dell’estrema polarizzazione che caratterizza la politica americana del momento.
Il 2020, inoltre, è anno di censimento: la popolazione dei vari stati viene conteggiata e, sulla base dei nuovi dati, è riallocata la rappresentanza della Camera Bassa. È il fenomeno con cadenza decennale del redistricting. Il numero dei rappresentanti attribuito a ogni stato viene adattato a seconda delle variazioni nella popolazione: aumenta in quegli stati che hanno visto crescere i loro abitanti e diminuisce dove, invece, i residenti sono calati; di conseguenza vengono ridisegnati i confini dei collegi elettorali.
La maggior parte degli stati delega le decisioni relative al redistricting alle assemblee legislative. Proprio questa è la ragione per cui ottenere una maggioranza alle elezioni statali è tanto importante. Chi controlla la maggioranza del Congresso statale, infatti, ha il potere di ridefinire i collegi in modo da avvantaggiare il proprio partito alle elezioni successive. La distribuzione degli elettori sul territorio americano, che vede i democratici concentrati nelle aree urbane e i repubblicani in quelle periferiche e rurali, crea le condizioni per cui una diversa disposizione dei collegi possa ribaltare l’esito dell’intero stato.
Nonostante gli sforzi della fazione di Biden, i democratici non hanno ottenuto i risultati sperati alle elezioni statali. Il voto è stato caratterizzato dalla più bassa mobilità dell’ultimo secolo in termini di passaggi di maggioranza. Solo nel New Hampshire entrambe le assemblee hanno cambiato colore, passando però dai blu ai rossi.
I referendum statali
Le elezioni presidenziali sono da sempre l’occasione in cui numerosi Stati pongono i propri cittadini davanti a referendum, molti dei quali di significativa importanza. Nonostante alcune recenti modifiche abbiano posto condizioni più stringenti per indire una consultazione, quest’anno i referendum sono stati 121 di cui una dozzina nella sola California. Molti di essi hanno, inoltre, toccato temi scottanti come l’aborto, nuove leggi elettorali e il colosso del car sharing Uber.
In questo scenario, il voto più significativo è stato sicuramente quello riguardante la legalizzazione della cannabis. Se ne è discusso in cinque stati: Arizona, Montana, New Jersey, South Dakota e Mississippi. Nei primi quattro sono state abolite tutte le restrizioni sull’uso a scopo ricreativo e terapeutico, mentre nell’ultimo solo per l’uso terapeutico. Questi risultati si sono andati a sommare a quelli dei molti altri stati dove il consumo di cannabis era già legale. Poco più di un mese dopo le elezioni, la Camera statunitense ha approvato la legalizzazione della marijuana a livello federale con 228 voti favorevoli e 164 contrari. Il testo passerà ora al Senato dove, vista la maggioranza repubblicana, si prevede che stenterà ad essere approvato.
Clarice Agostini
(grafiche a cura dell’autrice)
Per approfondire, l’articolo di A. Bonucchi, I. Brini e F. Speme sulle elezioni del Senato americano: