Le immagini delle proteste dei lavoratori della ristorazione – dovute alla pubblicazione del DPCM 24 ottobre e in seguito del DPCM 3 novembre – hanno invaso i telegiornali e le prime pagine dei quotidiani: la frustrazione e la preoccupazione sono palpabili. Qual è il futuro di un settore che, nella filiera agroalimentare, partecipa al 25% del PIL?
In principio fu la chiusura
“Dov’eri il 9 marzo 2020?” ci chiederanno un giorno i nostri figli o nipoti. Per alcuni sarà difficile ricordare, ma per una categoria di lavoratori, la data rimarrà nella memoria: i ristoratori di tutta Italia erano nel pieno del servizio di un normale lunedì sera.
Il primo lockdown nazionale non fu certo una novità: qualcuno, soprattutto al Nord (dove il coprifuoco era scattato da una settimana), aveva già ridotto o sospeso l’attività. “Sapevamo il momento che la nostra provincia stava attraversando […] Noi abbiamo lavorato fino a fine febbraio, quando ancora non era chiara la gravità della situazione, poi, insieme a una comunità di ristoratori e baristi di Brescia, abbiamo deciso di anticipare il DPCM, chiudendo prima delle regole del governo” racconta Luca Andrea Masserdotti, un ragazzo di 24 anni che lavora nell’osteria di famiglia Al Bianchi, una delle più celebri di Brescia che dal 1976, attraversando tre generazioni, scandisce i ritmi della vita sociale della città.
Sembra passata una vita da marzo: il senso civico ha sicuramente aiutato a ridurre i contagi e ci ha portato alla fase 2 con un allentamento delle misure restrittive e un’estate che, tutto sommato, ha fatto tirare un sospiro di sollievo al settore. Le attività ristorative che hanno potuto lavorare, sebbene con coperti ridotti e spese accessorie. L’incubo, però, si è concretizzato di nuovo: nelle aree rosse i locali sono chiusi e costretti alla sola pratica del delivery; nel resto d’Italia, il coprifuoco minaccia il rendimento dei servizi.
In principio fu chiusura, si navigava a vista e non si riuscivano a prevedere con certezza gli effetti della crisi. Ma dopo sette mesi siamo tornati al punto d’inizio, questa volta con dati poco incoraggianti: Ismea (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare) ha stimato una riduzione del 48% dei consumi alimentari fuori casa rispetto al 2019 e una perdita complessiva di settore di 41 miliardi di euro per il 2020. Lo scenario diventa più preoccupante se si considera che circa 1,2 milioni di lavoratori del settore del turismo (che comprende la ristorazione) sono stati sospesi e che, di questi, il 47,8% è un under 30. La stessa generazione che è chiamata a reggere il peso della crisi.
Resilienza in cucina
Restrizioni, coprifuoco, riduzione dei coperti, introduzione di divisori ai tavoli, adozione di nuovi dispositivi di igienizzazione: i ristoratori hanno dovuto adeguarsi alle nuove misure per garantire sicurezza ai propri clienti e la sopravvivenza alla propria attività, investendo (non poco) per poi ritrovarsi al punto di partenza.
In primavera abbiamo assistito ad un vero e proprio boom delle consegne a domicilio, come ci racconta Luca, che ha constatato un rapporto di conversione positivo ma non così redditizio: “Durante il lockdown riuscivamo a fare parecchie consegne. A livello economico non ripagava affatto, anzi, forse ci abbiamo pure rimesso, ma pur di essere vicini alle persone e ai nostri abituali è stato un piacere. I nostri ragazzi e anche noi ci siamo reinventati fattorini e consegnavamo sia a Brescia che in provincia. È stato peculiare, strano, ma comunque sentivamo di fare una buona azione, in un momento difficile”.
Il ricorso alla pratica dell’asporto o del delivery è stata una soluzione temporanea che ha consentito e sta consentendo un piccolo aiuto ai concittadini in difficoltà, spesso a scapito della natura della ristorazione che è soprattutto sentimento, accoglienza. Certamente, penalizza sia i lavoratori che spendono in imballaggi e consegne, ma anche i consumatori che vengono privati dell’esperienza caratteristica del servizio.
Allo stesso tempo, mantenere l’attività aperta comporta dei grandi accorgimenti che spesso possono generare difficoltà. “La convivialità è centrale al Bianchi. Bisogna continuare a ricordare le regole, essere pesanti, sgridare e richiamare. Al sabato abbiamo dovuto annullare l’aperitivo perché era impossibile contenere il richiamo della clientela. È capitato una volta che, per troppa affluenza, abbiamo dovuto chiudere con due ore di anticipo il servizio perché era diventato ingestibile, nonostante fosse all’aperto”. Le parole di Luca confermano la passione che clienti e gestori nutrono per l’attività e la voglia che entrambe le categorie hanno di godersi con naturalezza un momento di socialità.
Aggiungi un posto a tavola
La testimonianza dell’osteria “Al Bianchi” è fondamentale perché raccoglie a grandi linee quello che hanno vissuto e stanno vivendo tante realtà analoghe sul nostro territorio. Quello che ci si chiede, a fronte delle numerose chiusure, fallimenti e difficoltà del settore, è come l’Italia salverà la ristorazione.
Gli indennizzi (Decreto Ristori e Decreto Ristori bis) e la cassa integrazione sono stati gli strumenti principali con cui il Governo ha cercato di “tappare” il buco nel fatturato della ristorazione ma come ci conferma Luca, si tratta di misure insufficienti soprattutto per le realtà più grandi – come ristoranti e osterie – meno disposte alle conversioni in delivery, così come la cassa integrazione ed eventuali bonus sono stati spesso erogati con ritardi o parzialmente.
Ciononostante, gli strumenti dello Stato fanno la differenza se accompagnati a iniziative locali:
“Malgrado le risorse esigue delle casse comunali, sono stati messi a disposizione molti bandi come sconti sulle rate dei rifiuti, un ampliamento gratuito dei plateatici, aiuti a negozi al dettaglio, agroalimentari, a dimostrare vicinanza e aiuto con quello che si può. Anche da parte della regione ci saranno aiuti per le attività storiche e anche in quel caso sono presenti dei bandi, basta informarsi e partecipare. È ovvio che questo momento mette a nudo tutte le ambiguità, ma dal Governo è richiesto il massimo sforzo perché tanti di noi stanno chiudendo e non riapriranno più. Alcune realtà non si creeranno più e questa è una tragedia. […]
Perché in una città come Brescia, locali e centri di aggregazione non sono “posti in cui si va a bere”, ma luoghi di cultura, divertimento e ritrovo. La nostra tradizione bresciana per eccellenza, l’aperitivo, è a rischio e sta a tutti noi proteggerla, sia da chi, con beceri moralismi, attacca la categoria, sia da chi, per eccesso d’amore, crea focolai”.
Quello che il Governo dovrà riuscire a fare, ed è la sfida del momento per i vertici politici, è aggiungere un posto a tavola: preservare le eccellenze, proteggere le attività e gli imprenditori (soprattutto del settore turistico e alberghiero) che rendono il nostro celebre il nostro Paese nel mondo.
A noi cittadini non rimane che fare il primo passo, ricordandoci dei tanti ristoratori che, come Luca, fanno convergere la speranza dei giovani con la tradizione delle attività di famiglia.
Sofia Bettari