
In questo mercoledì, 18 novembre 2020, sono lieto di dichiarare solennemente la fine dell’undicesima epidemia di virus Ebola nella provincia dell’Equatore.
Eteni Logondo, Ministro della Salute in Congo
Kinshasa e l’Organizzazione Mondiale della Sanità, dopo 40 giorni senza un singolo caso, dichiarano finalmente conclusa l’epidemia di Ebola che dallo scorso 1° giugno ha mietuto 55 vittime nella Repubblica democratica del Congo, su 119 casi confermati e 11 probabili. È stata la seconda peggior epidemia della storia africana.
Un pericolo sventato se consideriamo i numeri della prima in classifica: tra il 2014 e il 2016 un focolaio di virus Ebola originatosi in Guinea ha varcato i confini nazionali, diffondendosi in Liberia, Sierra Leone e Nigeria; il bilancio finale è stato di 11mila decessi.
Tre scoperte e un capo sciolto
Ebola ha una storia tanto affascinante e frustrante dal punto di vista della ricerca scientifica quanto terrificante agli occhi della salute pubblica. Salta fuori nel 1976, causando in modo indipendente ma quasi contemporaneo due epidemie a diffusione locale: una nel nord dello Zaire (attuale Repubblica democratica del Congo) e una nel Sudan occidentale (oggi stato indipendente Sudan del Sud). In Zaire l’epicentro del contagio è un piccolo ospedale di una missione cattolica: verso metà settembre un medico locale segnala una ventina di casi di una nuova, sconvolgente malattia.
Dopo poche settimane, l’ospedale chiude i battenti: quasi tutti i dipendenti sono spirati. Questi sono solo i primi di una serie di focolai epidemici nell’Africa centrale il cui significato complessivo ancora ci sfugge ed è oggetto di dibattito. Ci sono però una serie di caratteristiche comuni ai diversi episodi: attività umana che disturba l’ecosistema della foresta, presenza di primati morti, poi il contagio passa all’uomo, poi per il ricovero in ospedale o per le pratiche stregonesche di guarigione compaiono i primi casi di contagio secondario. E, infine, la mortalità è sempre alta.
Nel 1976 vengono quindi isolati i primi due sottotipi di Ebola: Zaire e Sudan, distinti da piccole differenze genetiche.
Nel 1996 viene identificato un terzo sottotipo di Ebola. In Virginia, al Reston Primate Quarantine Unit, arriva un gruppo di macachi cinomologhi (Macaca fascicularis). Arrivano in aereo dalle Filippine, portando con sé il virus, un letale bagaglio a mano. Ebola Reston viene così isolato dal sangue delle scimmie affette da febbre emorragica. Nonostante l’allarmismo rapidamente diffusosi in tutto il continente, l’infezione, trasmessa anche ad alcuni addetti ai lavori, non dà manifestazioni cliniche evidenti nell’uomo.
Eccettuato il ceppo Reston, Ebola rimane quindi una misteriosa faccenda africana.
Letalità e isolamento
Ebola, con i suoi (almeno) tre sottotipi, fa oggi parte della famiglia microbiologica dei Filoviridae, creata per unire due virus con una morfologia insolita, una struttura vermiforme, filamentosa e contorta: virus Marburg (isolato nell’omonima città tedesca nel 1967) e virus Ebola.
Ebola è un ribovirus, il cui genoma è costituito da un singolo filamento di RNA a polarità negativa; è rivestito e il suo peplos, la membrana protettiva più esterna, presenta le caratteristiche proteine con probabile funzione di matrice VP40 e VP24 e la glicoproteina (GP) che funge da antirecettore, indispensabile per penetrare nella cellula ospite.
Una delle caratteristiche che più spaventano di Ebola è la mortalità (88% per il sottotipo Zaire, 51% per il Sudan), associata ad un quadro clinico spaventoso. Per i sottotipi africani, l’infezione coinvolge svariati organi, soprattutto fegato e reni, causa un esteso danneggiamento degli endoteli capillari, attivazione della coagulazione intravascolare disseminata e conseguenti emorragie interne, per esaurimento dei fattori coagulativi.
Ad oggi non ci sono importanti indicazioni terapeutiche, se non un isolamento totale. La trasmissione interumana infatti avviene per contatto con i fluidi biologici di un soggetto affetto (perfino attraverso il sudore), fin da 30 giorni prima della manifestazione dei sintomi, cioè anche nel periodo di incubazione del microrganismo.
Ospite serbatoio e ospite a fondo cieco
Tutto comincia quindi con due spill-over distinti. E ciclicamente, come è accaduto nella recente epidemia congolese, si ripetono questi salti di specie. Ma da dove salta fuori Ebola?
Quarant’anni di ricerche non hanno purtroppo ancora fornito una risposta chiara: la riserva natura, l’ospite serbatoio di Ebola sembra destinato a rimanere un mistero. Durante l’epidemia del 2001-2003 il virus viene identificato nelle carcasse di gorilla, scimpanzé e gazzelle. Partono ricerche intensive sui mammiferi, ma non vengono inizialmente esclusi nemmeno i vegetali. Ad oggi i candidati migliori sembrano essere i pipistrelli, soprattutto frugivori.
Quello che però ad oggi è certo è che Ebola è un patogeno altamente letale, ma poco contagioso: l’esaurirsi spontaneo delle epidemie significa che la maggior parte dei contagiati muore prima di poter infettare altri individui, mentre altri (pochi) guariscono; e il virus dopo un po’ smette di propagarsi. L’uomo è un “ospite a fondo cieco”: la catena del contagio, per quanto letale, almeno finora non è mai stata troppo lunga e non ha coperto grandi distanze spazio-temporali.
Non solo Congo, non solo Ebola
Come il Congo, che si è trovato per mesi a combattere contro due patogeni micidiali, SARS-Cov2 ed Ebola, così anche tante altre regioni del mondo lottano quotidianamente contro nemici invisibili, di cui quasi nessuno parla. È inevitabile che oggi il nostro pensiero sia del tutto concentrato sulla pandemia che stiamo affrontando. Ma è altrettanto inevitabile che altri focolai epidemici continuino a popolare il nostro pianeta. Pensiamo a tre esempi, su tutti, con agenti eziologici appartenenti a tre classi microbiologiche distinte: AIDS, tubercolosi e malaria. Tre patologie infettive, e mortali.
La meno letale, oggi, è quella causata dal tristemente noto retrovirus HIV: la terapia anti retrovirale HAART ha reso l’infezione da HIV una patologia a decorso cronico; i farmaci inibiscono la trascrizione virale, congelano la progressione della malattia. Secondo l’OMS alla fine del 2019 in tutto il mondo erano 38 milioni i pazienti che convivevano con l’infezione; 690.000 le morti HIV-correlate nel corso dell’anno e 1.7 milioni i nuovi casi di infezioni. Tuttavia, non dimentichiamo che, dalla sua comparsa, il virus dell’immunodeficienza umana ha trascinato via con sé 33 milioni di vite.
La tubercolosi, causata dal Mycobacterium tuberculosis o Bacillo di Koch, ben conosciuta dai nostri nonni, è una patologia “riemergente” nei Paesi Occidentali. In Italia i casi tra il 2004 e il 2014 sono stati in media 4300 all’anno. Ma nel mondo, solo nel 2019, le nuove infezioni sono state 10 milioni. E i decessi quasi un milione e mezzo.
C’è poi un parassita, un protozoo, il Plasmodium, che nelle sue cinque forme patologiche per l’uomo è responsabile della malaria: tra le prime causa di mortalità per morbosità al mondo, con 216 milioni di nuovi casi e 400.000 morti all’anno (per il 90% relativi alla regione africana). E ancora ci sono i casi di febbre gialla in Nigeria, di Dengue in Sri Lanka, di difterite in America Latina. Tutti focolai facilmente esplorabili con la HealthMap di Google: strumento utile ma impressionante.
E infine ci sono quelle malattie che pensavamo di aver sconfitto, almeno nel mondo occidentale, e che tornano a insinuarsi nelle nostre case: pensiamo al morbillo, alla rosolia. Grandi drammi del passato che tornano a bussare alla porta, perché paura e disinformazione ci allontanano dalle profilassi più sicure: i vaccini. Il numero di casi di morbillo in Europa da gennaio a giugno 2019 è stato circa 90.000, il doppio di quello riportato per lo stesso periodo nel 2018.
E quindi? Dobbiamo aver paura di ogni particella che ci circonda? Vivere con il terrore di milioni di patogeni diversi che in qualsiasi momento potrebbero prendere residenza nel nostro corpo? No. Semplicemente dobbiamo capire che stiamo combattendo tante lotte, che la sfida non è solo una. Che tutti vorremmo poter alzare la coppa della vittoria come Eteni Logondo, ma che, anche una volta sconfitto SARS-Cov2, rimarranno tanti altri traguardi da conquistare e precauzioni da prendere.
Cerchiamo di fare passi avanti, e non ridicoli passi indietro.
Teresa Caini
(In copertina un’immagine tratta dalla lotta contro Ebola in Congo)