“Per la scoperta del virus dell’epatite C”. Sono queste le parole con cui, lo scorso 5 ottobre, l’Assemblea al Karolinska Institutet di Solna (Svezia) ha proclamato l’assegnazione del Premio Nobel in Fisiologia o Medicina 2020 ad Harvey J. Alter, Michael Houghton e Charles M. Rice.
Così si è aperta la settimana di assegnazione degli ambiti riconoscimenti e si è tornati a parlare di virus. Avranno forse scelto l’HCV per distoglierci dal Coronavirus? Saremo così più terrorizzati dalla cirrosi che dall’insufficienza respiratoria? O forse questa scoperta ha dato un contributo davvero straordinario nella lotta contro un virus che fino a pochi anni fa tanto ci spaventava?
Direi, più probabilmente, l’ultima opzione.
Perché proprio HCV?
Ogni virus è un mondo a sé, affascinante e al tempo stesso terrificante, da conoscere e studiare. Ma che cos’ha di speciale questo HCV da giustificare un premio tanto importante?
Il virus dell’epatite C, con un tropismo pressoché esclusivo per le cellule epatiche (gli epatociti), causa un’infezione infiammatoria che spesso (50-70% dei casi) evolve in una grave malattia cronica, può esitare in cirrosi e/o contribuire all’innesco del carcinoma epatocellulare.
I principali problemi legati alla contrazione dell’HCV, quindi, sono l’attacco al fegato e la cronicizzazione della malattia.
Secondo l’OMS, ad oggi, ci sono circa 71 milioni di casi di infezione e 400mila vittime all’anno nel mondo. Un problema non da poco, per la nostra salute e per i vari Sistemi Sanitari Nazionali.
Virus delle epatiti primarie
L’epatite è una malattia infiammatoria del fegato e procede in maniera analoga a ogni altra infiammazione. Tutti i tessuti presentano una condizione di normalità che può essere alterata da stimoli dannosi. Quando ciò avviene, il nostro sistema immunitario innesca una sequenza dinamica di fenomeni atti a circoscrivere la zona danneggiata, eliminarne le cause e limitarne gli effetti. La risposta immunitaria, infine, cerca di riparare il tessuto ripristinando le condizioni di omeostasi, ovvero normalità originaria. È quello che succede quando ci abbronziamo, in conseguenza all’esposizione solare, o quando ci ustioniamo per contatto con un oggetto bollente.
Il tentativo di riparazione tissutale può concludersi con una restitutio ad integrum (o rigenerazione) per cui il tessuto torna alla condizione pre-danno e recupera la sua funzionalità, oppure con una cicatrizzazione, ovvero la formazione di tessuto fibroso e una conseguente perdita di funzione.
Nel caso dell’epatite il problema è proprio la fibrosi del parenchima epatico (ovvero l’esito cicatriziale dell’infezione con noduli di tessuto alterato) che aumenta con il persistere dell’infiammazione e può sfociare in cirrosi: una completa perdita di funzionalità epatica.
Ora, dal momento che il fegato non solo è la centralina metabolica più importante del nostro organismo, ma è anche la sede principale di detossificazione da farmaci e sostanze nocive, risulta chiaro il significato di un danno epatico:
- Viene a mancare un adeguato assorbimento di proteine;
- Si alterano il metabolismo e l’assorbimento lipidico;
- Aumenta il rischio di emorragie;
- Gli ioni ammonio tossici per il SNC diffondono in circolo causando encefalopatie ed eventualmente coma.
Alcol, droghe, malattie autoimmuni e obesità possono portare a un sovraccarico del fegato, a una sua lesione e quindi a un’epatite: infiammazione che genera un’alterazione morfologica e funzionale del parenchima epatico; tuttavia, ad oggi, la causa eziologica più comune dell’epatite è l’infezione virale.
In microbiologia i virus che possono causare epatite sono classificati in due tipologie. Virus che colpiscono altri organi e anche il fegato – quali varicella zoster virus, herpes simplex virus, citomegalovirus, virus della febbre gialla – e virus epatotropi che colpiscono in modo specifico il fegato. L’epatotropismo “primitivo” di questi ultimi virus sembra risiedere non solo nella sensibilità dell’epatocita, ovvero nella presenza di specifici recettori sulla superficie cellulare che consentono l’ingresso del virus, ma anche nella pressoché esclusiva permissività della cellula epatica alla replicazione virale.
I virus epatotropi oggi noti sono almeno quattro: quelli dell’epatite A (HAV), dell’epatite B (HBV), dell’epatite C (HCV) e dell’epatite E (HEV), a cui si va ad aggiungere il virus delta (HDV) dalla collocazione tassonomica ancora enigmatica e che si presenta esclusivamente in associazione con l’HBV.
I virus dell’epatite A ed E hanno una trasmissione enterica: essa avviene attraverso il circuito oro-fecale per cui le feci infette contaminano le acque e queste i prodotti agricoli e i frutti di mare che consumiamo crudi. In questi casi fortunatamente si tratta di manifestazioni con bassissima letalità e di norma a risoluzione spontanea.
La trasmissione dei virus dell’epatite B, C e D, invece, è di tipo parenterale, ovvero mediata dal sangue, e può avvenire tramite i rapporti sessuali, lo scambio di siringhe e le pratiche di bellezza (piercing, tatuaggi, manicure, etc.) e mediche (trasfusioni, trapianti, trasmissione materno-fetale, emodialisi, operazioni chirurgiche e prestazioni odontoiatriche). In questo caso le epatiti possono facilmente diventare croniche e a prognosi anche grave.
La cronicizzazione o meno di una malattia è un aspetto fondamentale nell’ottica di efficienza del Sistema Sanitario: la gestione dei malati cronici implica un’elevata spesa sostenuta a lungo termine e una maggiore necessità di spazi e personale.
Per tutte queste ragioni i virus delle epatiti primarie sono da sempre considerati un problema medico e sanitario di una certa rilevanza e si comprende il valore di una tale scoperta.
Identikit di un virus
Il virus dell’epatite C è un virus a RNA a polarità positiva, dotato di envelope e appartenente alla famiglia dei Flaviviridae. È un virus epatotropo e oncogeno la cui fonte di trasmissione prevalente è il sangue. Secondo i dati SEIEVA, nel 2016 in Italia, i principali fattori di rischio per un’infezione da HCV erano partner sessuali (42,9%), droghe somministrate endovena (26,3%), piercing, tatuaggi, manicure e rasature dal barbiere (21,9%) e trasfusioni di sangue (20,5%).
L’infezione da HCV è subdola: rimane asintomatica fino alla comparsa di segni clinici che denotano uno scompenso delle funzioni epatiche. Essa ha un periodo di incubazione medio di 6-7 settimane e nel 30-40% dei soggetti, soprattutto adulti, si manifesta con la comparsa dell’ittero: carattere più evidente riconducibile all’epatite.
Nel caso di HCV, più che per altri virus epatotropi, la malattia è l’espressione della reazione del sistema immunitario contro le cellule infettate: l’effetto citotossico dei linfociti T causa la morte degli epatociti malati e la risposta infiammatoria aggrava la funzionalità del fegato.
Per rimanere attuali, nonostante gli organi bersaglio siano diversi, possiamo notare come frequente assenza di sintomi e iper-reazione infiammatoria siano caratteri comuni all’infezione da nuovo Coronavirus.
Storia di una scoperta
I sospetti dell’esistenza dell’HCV circolavano già negli anni ‘70, ma la pubblicazione della sua scoperta si è realizzata solo nel 1989. L’assegnazione di un Nobel a 30 anni di distanza, però, non deve stupire. A essere premiata non è la scoperta in sé, quanto l’impatto di questa sulla medicina e sulla salute, cosa che, in questo caso, è stata notevole. Oggi, infatti, ci sono più di 150 milioni di persone affette da HCV nel mondo ma esiste una terapia per curare questa particolare epatite; oggi, il rischio di trasmissione per trasfusione è stato quasi del tutto eliminato; si usano guanti e aghi monouso per prelievi e iniezioni: una delle tante rivoluzioni in ambito sanitario incentivate proprio dalla scoperta di virus come HCV e HIV (avvenuta nei primi anni ‘80).
Fino agli anni ‘70 si conoscevano quindi i virus dell’epatite A e dell’epatite B per i quali esistevano test diagnostici e prime forme di vaccino. Tutte le altre epatiti venivano attribuite a un virus “non A e non B”.
Alla metà degli anni ’70, le ricerche di Harvey J. Alter, newyorkese che lavorava ai National Institutes of Health statunitensi e si occupava di studiare l’incidenza delle epatiti nei pazienti che avevano ricevuto trasfusioni di sangue, dimostrarono l’esistenza di un virus ancora sconosciuto che era causa comune di epatiti croniche. Alla fine degli anni ’80, il britannico Michael Houghton utilizzò una strategia che non era ancora mai stata testata per isolare il genoma del nuovo virus (chiamato virus dell’epatite C) dal sangue di uno scimpanzè infetto. Infine, Charles M. Rice, ricercatore della Washington University di St. Louis, fornì la conferma definitiva del fatto che questo virus da solo potesse causare epatite dopo avere iniettato una regione del codice genetico di HCV, importante per la sua replicazione, nel fegato degli scimpanzè e avere notato che ciò provocava alterazioni patologiche simili a quelle osservate nei pazienti malati.
Oggi, sofisticati test per la ricerca di anticorpi specifici e di RNA virale nel sangue dei pazienti ci permettono di fare diagnosi accurate di infezione da HCV e di valutare l’andamento della malattia, verso la sua guarigione o cronicizzazione.
Come ci proteggiamo?
In Italia, negli anni 2000, l’infezione da HCV presentava un’incidenza solo del 9%, contro il 62% dell’HAV e il 24% dell’HBV; tuttavia era la forma più temuta contro cui non avevamo vaccini o terapie adeguati.
Per l’epatite A esiste un vaccino con virus ucciso che assicura una protezione del 100% per 10-15 anni ed è consigliato a chi si reca in paesi in cui la circolazione del virus è attiva.
Un altro vaccino, il primo di nuova generazione nella storia della vaccinologia, realizzato in laboratorio con proteine ricombinanti, è quello per l’HBV. La sua sintesi e distribuzione sono attive dal 1991, anno in cui è diventato obbligatorio in Italia e questo è efficace anche contro l’infezione da HDV.
Inoltre, sia per il virus dell’epatite A che per quello dell’epatite B, esiste una forma di immunoprofilassi passiva che prevede la somministrazione post-esposizione di anticorpi virus-specifici provenienti da soggetti convalescenti. I soggetti non vaccinati verrebbero così preservati in caso di contatto accidentale con il patogeno.
Per il virus dell’epatite E, invece, l’unica forma di prevenzione consiste nell’evitare l’utilizzo di acqua non potabile e il consumo di carne cruda o poco cotta di animali infetti (soprattutto maiali e cinghiali).
Nel caso dei virus a trasmissione parenterale, soprattutto dell’HCV, diventano fondamentali anche lo screening dei donatori di sangue o di organi e la diminuzione dei fattori di rischio, ad esempio attraverso l’uso di aghi monouso, di strumenti sterili per piercing, tatuaggi o manicure, di profilattici nei rapporti sessuali, o ancora, attraverso la manipolazione attenta di sangue e fluidi corporei in ambito sanitario.
Tutte queste pratiche fanno parte della cosiddetta prevenzione sia primaria che secondaria.
Senza alcun dubbio, la profilassi più efficace in ogni caso sarebbe quella immunitaria, ovvero della vaccinazione, ma il principale problema legato all’HCV è la sua elevata variabilità.
Ad oggi, sulla base dell’analisi del suo genoma virale, si possono identificare 7 genotipi (omologia di genoma minore o uguale al 70%), 90 sottospecie (omologia minore o uguale all’80%) e molteplici quasi specie (omologia tra il 90 e il 99%).
Ma questa eterogeneità genica cosa comporta? Innanzitutto, una maggiore tendenza dell’infezione alla cronicizzazione, ma anche frequenti reinfezioni, una diversa efficacia della terapia con interferone (applicata fino al 2005) e, soprattutto, un’enorme difficoltà ad allestire un vaccino dal momento che un genoma così instabile accumula innumerevoli mutazioni nel tempo.
Ovviamente, se il bersaglio da colpire è mutevole e può variare da individuo a individuo, stimolare il sistema immunitario a produrre anticorpi neutralizzanti specifici per ciascuno diventa molto complesso.
Grazie a innumerevoli studi, oggi, l’infezione da HCV fa molta meno paura che in passato. L’introduzione, dal 2015, di nuovi farmaci antivirali (il primo è stato il Sofosbuvir, inibitore dell’RNA polimerasi virus-specifica) ha rivoluzionato il trattamento dei soggetti affetti: una terapia combinata di sole 12 settimane porta alla clearance dell’individuo, cioè all’eliminazione del virus e alla completa guarigione.
È chiaro che l’effetto non è quello di un vaccino: il soggetto non si immunizza e in futuro potrebbe riammalarsi, ma sicuramente, poter contare su una terapia risolutiva e non eccessivamente costosa, è una conquista importante. Con una pubblicazione del maggio 2016, l’OMS ha fissato un obiettivo a lungo termine nella lotta contro le epatiti B e C: ridurre, a livello globale, le nuove infezioni croniche del 90% e il numero di morti a causa di epatite virale del 65% entro il 2030.
E quindi?
Quindi, ci sono tre conclusioni importanti da trarre.
Primo. La ricerca e la conoscenza di un nuovo virus richiedono tempo, intuizione e mentalità scientifica, così come richiede tempo e grandi sforzi l’approdo a una profilassi e a una terapia. Per anni i soggetti effetti da HCV sono stati trattati con farmaci a base di interferone dagli effetti collaterali pesanti e dagli scarsi risultati: solo da cinque anni abbiamo una terapia davvero funzionante.
Secondo. Non sempre si riesce a produrre un vaccino efficace contro un agente infettivo virale o batterico e non sempre lo si può fare in tempi brevi: il normale sviluppo di un vaccino pratico e sicuro richiede numerose fasi di sperimentazione e controlli stringenti. Ad esempio, la sola fase di trial preclinico, destinata a escludere i rischi più gravi, sulla base di dati di laboratorio e osservazioni tossicologiche sugli animali, può durare decenni. Per questo, alle volte, diventa necessario accettare una convivenza con l’agente patogeno finché la ricerca non approdi a una terapia efficace.
Terzo. Senza investire denaro (tanto denaro) nella ricerca, nello sviluppo di nuove tecnologie e nel potenziamento del Sistema Sanitario Nazionale, non si può sperare che un’epidemia, o addirittura una pandemia, si risolva da sola. Non si può aspettare che dal cielo piovano soluzioni brillanti o che il microorganismo contro cui si combatte decida di arrendersi. A volte succede, altre no.
La scoperta dell’HCV è stata geniale, ma è stata anche il frutto di tanto lavoro di ricerca e di impagabili sacrifici. Sforzi riconosciuti, non a caso, da un Premio Nobel.
Teresa Caini
(In copertina virus dell’Epatite C)
Fonti bibliografiche e sitografiche:
- Michele La Placa, Principi di microbiologia medica, Bologna, Edises, 10^ ed. (2005).
- A.K. Abbas, V. Kumar, J.C. Aster, E.C. Klatt, Robbins e Cotran. Le basi patologiche delle malattie, EDRA, 9^ ed. (2015).
- WHO, Combating hepatitis B and C to reach elimination by 2030 (World Health Organization);
- Elisabetta Intini, Nobel per la Medicina 2020 agli scopritori del virus dell’epatite C (Focus);
- Francesco Bianco, Premio Nobel Medicina 2020 alla scoperta del virus dell’Epatite C (OK salute e benessere);
- Marta Musso, Il Nobel per la medicina 2020 alla scoperta del virus dell’epatite C (Wired)
- Istituto Superiore di Sanità, SEIEVA – Sistema Epidemiologico Integrato dell’Epatite Virale Acuta (Istituto Superiore di Sanità).