
Siamo spaesati, e il fatto di esserlo è assai eloquente. Nel periodo in cui abbiamo dovuto aderire all’obbligo di restare in casa e incontrare il minor numero possibile di persone, seppur giusto e necessario, ha avuto la conseguenza di portarci a vivere in un non-luogo e in un non-tempo.
Questione di spazio, questione di tempo
Non abbiamo abitato più gli stessi spazi di prima, modellati da chi li frequentava e viveva anno per anno, e per questo è nato il rischio di perdere contatto con la nostra memoria collettiva, sia essa di paese, di città, regione o Stato. Non abbiamo più pensato ogni giorno al coraggio, ai valori e alle lotte di quei personaggi che prestano i loro nomi alle vie e alle piazze delle nostre città. Siamo rimasti lontani, da loro e da noi.
E internet, di contro, non porta su di sé le impronte della passione per un ideale, non la fatica per raggiungerlo, nemmeno il riconoscimento. In nessuna parte dello schermo di un computer si può attingere alla forza d’animo che caratterizza l’uomo con la stessa facilità con cui si apre una cartella di documenti Google.
E non abbiamo abitato neanche più nello stesso tempo, dal momento che se prima ogni momento vantava della sua irripetibile unicità, ora tutto si può riguardare, riascoltare, ri-vivere. A partire dalle lezioni a distanza dell’università o della scuola. Qualsiasi cosa messa in rete, in un modo o nell’altro, è recuperabile e accessibile a ogni ora della giornata quante volte si voglia. E assistere, in un qualche modo, alle situazioni, lasciandoci spettatori lontani, fa perdere il senso di realtà della giornata.
Per non parlare di come gli alunni delle scuole medie, ma soprattutto di quelli delle elementari, abbiano bisogno di essere seguiti nell’apprendimento delle basi della nostra cultura, e di esserlo meglio e con un’attenzione individuale maggiore di quella che si può offrire attraverso una videocamera. E tutto questo svolto in meno ore rispetto alle solite, per dare il colpo di grazia anche alla didattica che, oltre ad aver perso la qualità, ora è minacciata pure nella quantità.
La vera lontananza è che non ci si sente partecipi.
Noi, l’altro, il mondo
Oltretutto, vivere la comunità senza vederla davvero, senza davvero farne parte, può incidere in una certa misura sul proprio senso d’individualità. Una delle colonne portanti della percezione di noi stessi, infatti, risiede proprio nella relazione con l’Altro. Altro inteso come Alterità, come individuo diverso da sé. Ma se questa Alterità viene a mancare, verrebbe da chiedersi allora che posto ognuno abbia nel mondo, e in quale tipo di relazione possa stare con esso. Dove sia quel senso di appartenenza a un gruppo – di amici, scolastico, universitario, lavorativo, sportivo, e tutti quelli in cui si può dare espressione a una parte di sé – che tanto ci fa sentire definiti e, in un certo senso, al sicuro.
Perché, se da una parte è vero che tutto ciò che definisce limita, dall’altra ne riconosciamo l’importanza per orientarci all’interno di una società come la nostra, piena di tante strade diverse, confuse, spesso contradditorie e sovrapposte le une alle altre. E di conseguenza, per quanto ci piacerebbe, non riusciamo a farne a meno. In questo senso siamo spaesati.
Dall’altra parte della Rete
Alla luce di ciò, il blocco che stiamo ancora attraversando non è solo fisico o economico: è anche la nostra emotività, come la nostra espressione, ad essere inibita. Ora, se la possibilità di viversi nella realtà e di conseguenza di esprimere la propria esistenza non è libera, va da sé che non possiamo nemmeno vivere i sentimenti allo stesso modo. Basti pensare che normalmente si prova affetto per qualcuno per il fatto che è come è e non diverso, non uguale ad altri; riguardo a ciò, sui social network non c’è una vera possibilità di essere sé stessi in modo autentico.
Un po’ perché il massimo di comunicazione che possiamo avere su una più larga scala è scrivere un post o pubblicare un video, a cui però si potranno fare solo dei commenti non degni di un vero confronto a parole. E un po’ perché nello sconfinato web, alla fine risultiamo essere dei semplici “utenti” attraverso cui possiamo scegliere di mostrare anche solo alcune parti di noi, o addirittura farci passare per qualcuno che non siamo. Nemmeno le conversazioni in una chat avranno mai la stessa spontaneità di quelle dal vivo. Quanto alle videochiamate, il più delle volte sembrano essere solo un insipido surrogato della compagnia.
Per questo motivo trovo impossibile creare o sviluppare dei rapporti sinceri in via telematica. È l’educazione ai sentimenti ad essere bloccata. Un gruppo ha bisogno di stare insieme e percepire la comunità per costruire l’immagine che ha di se stesso. Così facendo, ogni individuo può fare esperienza diretta di come vuole diventare e come no, di quali attività permettono uno sviluppo più autentico e di quali lo allontanano da sé. Prendersi la responsabilità di conoscersi in relazione al mondo e trasformarsi a proprio piacimento nel rispetto della crescita altrui è una scelta determinante, nonché un atto di coraggio che ci permette di fare continui salti di coscienza e di stare nella dinamicità dell’esistenza che creiamo.
Così vicini, così lontani
È pur vero che internet ha la capacità di rendere più facilmente accessibili un vasto bagaglio di informazioni su attualità e sapere in generale, come è vero che questa qualità è stata facilmente deturpata dagli amanti del parlare senza dire nulla, dai dirottatori patologici di notizie e da chi pensa di non avere niente di meglio da fare che diffondere il disprezzo sotto forma di insulti rivolti a personaggi pubblici e non. Come se il bombardamento asettico di informazioni e opinioni sterili – e anzi, incitanti all’odio – fosse il nutrimento preferito della desolazione sociale in cui siamo attualmente immersi. Nonché la manifestazione del gelo dell’empatia alla luce della paura che più di tutto allontana dal senso di comunità. E questo va ad avallare l’impossibilità di imparare come vivere con gli altri, che è già di per sé caratteristico del Web.
È paradossale: il prezzo di passare del tempo connessi alla rete è allontanarsi sempre di più gli uni agli altri, uno stare vicini stando lontani, restare in contatto perdendo ogni volta pezzi di noi e delle nostre relazioni. La comunicazione che dovrebbe farci sentire interconnessi, divide. E proprio il fatto di renderci conto di tal fenomeno, di cui siamo autori e vittime, alimenta la diffidenza che proviamo l’uno nei confronti dell’altro. Così tutti dicono qualcosa, e nessuno ascolta davvero. E se anche qualcuno trovasse un po’ di sollievo dalla situazione contingente a consultare pagine social volte allo svago, per esempio, rimane il fatto che si tratta di rivolgersi a un mondo non reale, in cui spesso si condividono contenuti col solo scopo di condividerli, mancando di valore e uccidendo la creatività.
E l’attaccamento che abbiamo per questo mondo virtuale non è solo colpa nostra: è il modo in cui i social network sono stati creati a renderli irresistibili, con storie che durano solo un giorno e che possiamo prendere con la leggerezza che cerchiamo per sentirci meglio in un periodo così pesante; contenuti di durata sempre più breve per un mondo sempre più veloce.
Rendersene conto è la chiave per non riporre così tanto di noi e del nostro tempo in così poco.
Altre solitudini
Tuttavia esiste un riscatto possibile: la consapevolezza di essere frammentati nella nostra natura di uomini ci permette di riconoscere la necessità dell’Altro. Non intesa come dipendenza, ma interdipendenza. L’Altro come confronto, specchio di noi e delle nostre credenze, identificazione di sé attraverso ciò che ci è simile e ciò che è diverso; attraverso ciò che ci attira e ciò che rifuggiamo. La solitudine che ci accompagna dal momento in cui siamo nati trova sollievo nel venire a contatto con altre solitudini. Questa relazione ci permette di proteggere la nostra, di solitudine, in quanto si riconosce diversa dalle altre, unica.
E la vera unione, seppur realizzabile solo per approssimazione, in quanto rimaniamo sempre dei singoli, produce emozioni, che catalizzano la liberazione di energia creativa necessaria ad attingere più facilmente a tutte le nostre potenzialità. In tal senso trasformarsi è anche amore di sé, è crescere. Non importa che tipo di esperienze siano, perché spesso quello che succede è esattamente quello di cui abbiamo bisogno per diventare versioni più autentiche di noi, liberandoci di una qualche convinzione o aspettativa o giudizio che avevamo in precedenza e che ci teneva legati, ci bloccava. Ad aiutarci è lo stare in comunità, parola che viene dal latino cum-munus e si riferisce a un dono da dare, un impegno da svolgere assieme, un essere partecipi dell’altro e comunque presenti a sé stessi.
Perciò quel poco di libertà fisica concessaci in questi ultimi mesi, la possibilità di ritrovarsi, che va di pari passo con una libertà più alta, è da trattare con la massima cura, soprattutto ora che sappiamo cosa significa vivere nella sua assenza e che da un giorno all’altro, senza preavviso, vi ci possiamo ripiombare dentro. E quando questa non viene rispettata, vuoi per distrazione, vuoi per noncuranza, il torto che si fa va oltre alla possibilità di perdere la salute. È un torto all’esistenza.
Caterina Tenisci
(In copertina Noah Silliman da Unsplash)