Quanti di voi hanno mai sentito la parola “greenwashing”? È un termine nuovo, che fa parte del lessico della lotta al cambiamento climatico e che negli ultimi anni sta emergendo sempre di più.
Un espediente sleale
La sostenibilità ambientale è oggi uno dei temi di attualità più discussi.
In questi anni siamo sempre alla ricerca di nuove strade per ridurre il nostro impatto sul pianeta: nascono nuove diete, nuovi stili di vita, nuove necessità e richieste. Il mercato si deve adattare alle esigenze di consumatori figli di queste consapevolezze, più attenti ai prodotti che acquistano e decisi a dare il loro contributo alla lotta per l’ambiente.
Il grado di sostenibilità che ogni azienda dovrebbe garantire ha però un costo maggiore, difficile da sostenere nell’ottica capitalistica occidentale. Questo spinge molte aziende a ricorrere a stratagemmi sleali, che permettano di mantenere alto il profitto incontrando comunque le richieste dei loro compratori. È così che si sviluppa il cosiddetto greenwashing, una facciata ecosostenibile alle cui spalle vi è tutt’altro che una filiera green. Per i consumatori a cui è cara l’etica ambientalista, è importante conoscere il fenomeno ed cercare di evitarlo.
L’origine della parola greenwashing
“Greenwashing” è un neologismo coniato nel 1986 dall’ambientalista Jay Westerveld per denunciare una pratica apparentemente ecologista attuata dalle catene alberghiere sul consumo di asciugamani. È, nello specifico, una fusione tra i termini inglesi “green” e “washing”. Con “green” ci si riferisce alla sfera della sostenibilità ambientale; “washing” rimanda invece a “whitewashing”, che letteralmente significa “imbiancare” e quindi, per traslato, “coprire”.
L’accezione fortemente negativa del termine deriva dalla pratica, diffusa nell’industria cinematografica, di far interpretare ad attori bianchi caucasici personaggi che invece apparterrebbero a minoranze etniche, per fare in modo che il grande pubblico li apprezzi maggiormente.
In cosa consiste il greenwashing
Si tratta di alcune strategie di marketing e d’immagine messe in atto da imprese che vogliono mostrarsi ecosostenibili agli occhi dei consumatori senza però avere, nei fatti, mai avviato politiche del genere.
Un esempio è ingigantire la sostenibilità di un prodotto puntando sulla disattenzione dei consumatori: nelle pubblicità o sulle etichette si pongono informazioni facilmente fraintendibili. Se su un’etichetta si legge “aumento della componente riciclata del 50%”, un compratore medio penserà che, sul 100% di quel prodotto, la metà provenga da fonti riciclate; invece, quello che veramente ha fatto l’azienda è stato aumentare il riciclato dal 2% al 3%. L’azienda sa che la maggior parte delle persone non si preoccuperà di controllare quale sia nei fatti quel 50% – spesso il dato esplicito viene riportato in piccolo sulla confezione stessa – e comprerà il prodotto lo stesso.
Un altro modo di attuare greenwashing consiste nel sottolineare la sostenibilità di un solo aspetto dell’articolo venduto: ad esempio, se sulla confezione di un prodotto alimentare si evidenzia la totale assenza o la sostenibilità nella filiera produttiva di un ingrediente considerato dannoso per l’ambiente, il consumatore sarà portato a scegliere quel marchio, perché risulta più green. Ma quanta attenzione si è posta sugli altri ingredienti? Nessuna, eppure potrebbero essere altrettanto dannosi.
Marchi garanti di sostenibilità
Alla luce di tutto questo, sembra alquanto difficile scegliere tra le centinaia di prodotti che affollano gli scaffali dei negozi e trovare il marchio che rappresenta le nostre richieste in materia ambientalista. Il packaging, le materie prime utilizzate, le emissioni nell’ambiente sono tutti fattori che dobbiamo considerare al momento dell’acquisto.
Il consumatore può prendere come garanzia sul prodotto e sull’azienda alcuni marchi, che certificano la filiera controllata. Uno tra questi è l’Ecolabel EU, che attesta che la realizzazione di un prodotto sia avvenuta, in tutto il suo ciclo di vita, nel rispetto dell’ambiente secondo le norme della Comunità Europea. Un altro marchio di garanzia ambientale è FSC (Forest Stewardship Council), che garantisce, a livello mondiale, la provenienza di legno da foreste gestite in modo sostenibile. Nel settore alimentare vi è l’Eurofoglia, portavoce dell’agricoltura biologica in Europa.
Un marchio etico: il B Lab
Sul mercato dominano le multinazionali che annientano le piccole o medie imprese. È per questo che sarebbe importante che noi consumatori le sostenessimo maggiormente per creare un mercato migliore e più differenziato. È nato quindi un altro marchio, il B Lab, valido come i precedenti, che attesta non solo la piena sostenibilità ambientale dell’azienda, ma anche il rispetto dei diritti dei lavoratori. Nascono così le B Corp, o B Corporation, un gruppo che ormai conta più di 2500 aziende a livello mondiale.
Con attenzione all’ambiente e responsabilità sociale, queste imprese stanno riscrivendo il modo di fare mercato, in un’ottica etica e sostenibile.
Camilla Botturi