
Dopo due mesi di pausa riapre l’Oratorio di San Filippo Neri e lo fa con due ospiti speciali: Edoardo Erba e Maria Amelia Monti. Ci raccontano la serata Iacopo Brini e Blu Dòmini, inviati per Giovani Reporter ad assistere allo spettacolo.
Doveva essere un luogo di cura…
Si potrebbe affermare, non troppo a torto, che il lunedì sia il giorno peggiore della settimana. Che sia un lunedì d’estate o d’inverno, c’è sempre qualche strumento della sorte che cospira per sabotarti la giornata, e lunedì 15 giugno di certo non sembrava discostarsi troppo dalla tediosa norma: una pioggia leggera, ma sufficiente a inumidirmi la giacca, accompagnava la mia corsetta ben poco aggraziata sotto i portici del centro. Non indossavo un pantalone lungo da qualcosa come quattro mesi, del resto, ed ero pure in ritardo. Dunque, cosa potrebbe mai aver spinto me e la mia collega, Blu Dòmini, a partecipare alla riapertura dell’Oratorio San Filippo Neri nonostante i sassi e i dardi dell’iniqua fortuna?
La risposta l’abbiamo trovata all’interno, nella lettura scenica Vaiolo, con Edoardo Erba e Maria Amelia Monti, e nel dialogo instauratosi al termine di questa. Il testo, pur essendo stato scritto ventidue anni fa, era di un’impressionante attualità. Due spie, travestite rispettivamente da archeologo e antropologa, si ritrovano nelle rovine sotterranee dell’Oratorio, in un distopico futuro non meglio precisato, dove il teatro come arte è svanito e con lui il ricordo della sua funzione. La strana conclusione a cui giungono i due, osservando le rovine, è che fosse un luogo di cura per il vaiolo, debellato nel ventesimo secolo. Gli ultimi infetti si sarebbero recati nella struttura alla ricerca di una misteriosa cura, somministrata da una casta di professionisti che al duo sul palco paiono poco più che ciarlatani.


Inizialmente questo doveva essere un luogo di cura. Chi entrava qui era malato e ci veniva con la stessa speranza con cui un paralitico entra in un bagno termale.
Edoardo Erba, Vaiolo
Il teatro dopo la pandemia
Normalmente, scriverei una recensione dello spettacolo in sé, della trama e della recitazione, di ciò che ha reso questo appuntamento speciale e diverso dal solito, ma questa volta è diverso. Ciò che ha davvero caratterizzato questa serata non è tanto, per dirla in maniera aristotelica, la sostanza del testo, ma la sua forma, il suo involucro: il vero elemento speciale è il ritorno del teatro, dopo uno iato di due mesi abbondanti.
Vaiolo, in sé, è geniale e pone degli incredibili spunti di riflessione, degni probabilmente di un altro e più lungo articolo; ciò in cui però ha davvero avuto successo, presso la platea, è nel celebrare il ritorno di questi spunti, della possibilità di arricchirsi che il teatro offre ai suoi spettatori serata dopo serata. Se ne è discusso dopo la lectio, di come attori e pubblico abbiano gestito questa separazione. Il tutto mentre Edoardo e Maria Amelia ci narravano i modi da loro utilizzati per mantenere vivo quel “collegamento con la realtà” che sono le forme creative, tramite sketch e spettacoli a distanza, con le più disparate forme di collegamento e videoconferenza.
Il “farmakon” del Vaiolo
Ha sintetizzato in maniera eccellente dama Monti, parlando della necessità di vedere l’azione “in diretta” da parte del pubblico, che impedisce a ogni tentativo di emulazione “a distanza” di istituire correttamente il collegamento di cui si parlava poco sopra. Vaiolo è stato dunque un doppio farmakon Epicureo, una doppia “cura” per lo stesso tipo di metaforico vaiolo che affliggeva la platea. Ci ha fornito spunti di riflessione, facendoci interrogare su questioni del futuro e del presente, portandoci a chiedere cosa sarà della nostra cultura, delle nostre idee, quando i loro luminari e gli epigoni di questi ultimi saranno ormai defunti da secoli.
Ci siamo chiesti se davvero quel processo di scomparsa e di oblio inconsapevole che serpeggia nella storia umana sia ora incominciato anche per l’arte del teatro e della drammaturgia. Abbiamo riflettuto, e nel farlo abbiamo incontrato la seconda cura, accorgendoci della necessità della riflessione stessa.
La platea, ed io con lei, ha acquisito una reale consapevolezza di cosa l’avesse spinta ad affrontare i sassi e i dardi della fortuna: la necessità di incontrare il nuovo ed il vecchio, sistematicamente, e fare i conti con essi. La necessità di conoscere il diverso, lo sconosciuto, e di ricordare il passato, l’avvenuto. La necessità di pensare.
Iacopo Brini (con la partecipazione e gli appunti di Blu Dòmini)
Con la collaborazione dell’Oratorio di San Filippo Neri: