Un mondo nuovo è quello che ci aspetta dopo il Coronavirus. L’Unione Europea sta affrontando una crisi epocale, ma solo la fine del sogno europeo può garantire all’Italia una ripresa efficiente.
Il sogno dell’Italia cominciò circa trent’anni fa. Pochi se lo ricordano, ma nel 1989, in mezzo a eventi di gran lunga più importanti, si tenne un referendum consultivo sull’integrazione europea. La votazione, pur non vincolante, fu molto partecipata e vide il trasversale fronte europeista affermarsi con una percentuale vicina al 90%. Era l’inizio di quel percorso di riforme che edificò in breve tempo un’Unione Europea molto simile a quella che oggi conosciamo. Certo, restavano molti passi da fare sul piano della politica economica, ma tra i protagonisti di quel periodo prevaleva l’ottimismo. “È politicamente impossibile proporre ciò ora, ma un giorno ci sarà una crisi e nuovi strumenti saranno creati”, scommetteva Romano Prodi nel 2001.
Oggi, osservando la risposta dei governi alla seconda crisi dell’eurozona, dobbiamo a malincuore constatare che le previsioni del Professore erano un po’ troppo ottimiste. E se nemmeno la minaccia posta dal Coronavirus è in grado di generare un minimo di solidarietà concreta tra i paesi, ciò può voler dire solo una cosa: l’Europa unita non è altro che un’illusione. A confermarlo il recente sondaggio di Tecnè da cui emerge che il 49% dei nostri concittadini vedrebbe positivamente l’uscita dall’UE. Il 2020 segna quindi la fine del sogno europeo, cioè di quell’aprioristica fiducia nella benevolenza dei governi stranieri che tanti danni ha arrecato agli italiani e alla posizione dell’Italia in Europa.
Ritorno alla realtà
L’Unione Europea è un campo di battaglia nel quale si scontrano interessi nazionali contrastanti e ogni paese cerca di guadagnare qualcosa a scapito degli altri. È per questo che a tre mesi dalla creazione della task force per fronteggiare l’emergenza non si è ancora trovato un accordo soddisfacente. Da un lato c’è il fronte dei paesi mediterranei, tra cui l’Italia, che spinge per una risposta unitaria e massiccia, in modo da far ripartire l’economia anche nei paesi più in difficoltà. Dall’altro ci sono i “falchi”, i paesi del Nord, contrari alla creazione di un debito comune e disposti a fornire modici prestiti solo in cambio di “riforme” (tasse al ceto medio, riduzione delle tutele dei lavoratori, facilitazione dei pignoramenti immobiliari) per il Sud.
Davanti alla crisi, quindi, è saltato subito il bluff delle famiglie politiche europee, così come l’ipocrita distinzione tra sovranisti ed europeisti. Di tutti questi paesi “egoisti”, infatti, non c’è n’è uno che sia governato da forze apertamente euroscettiche. In Svezia e in Danimarca governano i socialdemocratici con i verdi e la sinistra, nei Paesi Bassi i liberali e il centro-destra, in Austria i popolari e i verdi. Un tradimento così evidente da scatenare la risposta durissima del primo ministro portoghese Antonio Costa. “Dobbiamo sapere se possiamo andare avanti con tutti i paesi o se c’è qualcuno che vuole essere lasciato fuori” ha detto, riferendosi ai Paesi Bassi.
Disuguaglianze insormontabili
Anche tralasciando gli avvenimenti degli ultimi mesi, però, il sogno europeo deve fare i conti con le disuguaglianze strutturali presenti in questa Unione. Non si può pensare di costruire un’Europa federale senza, ad esempio, una tassazione comune per le multinazionali. Eppure i paradisi fiscali interni all’UE esistono e si calcola che l’Italia perda circa 6,5 miliardi l’anno a causa della concorrenza sleale di Paesi Bassi, Lussemburgo e Irlanda, tutti sulla carta europeisti. Un discorso simile vale per i paesi dell’Est. Questi, non solo ci sottraggono migliaia di posti di lavoro grazie ai salari più bassi, ma possono anche permettersi di dire no al ricollocamento dei migranti senza che ciò abbia alcun impatto sui fondi europei che gli cediamo ogni anno.
Per quanto riguarda la politica estera comune, poi, siamo nel mondo della pura fantasia. Basti pensare allo scenario libico in cui la Francia, primo responsabile del caos odierno, si trova dalla stessa parte di Russia e Arabia Saudita contro il governo riconosciuto dall’ONU.
Aprire gli occhi e guardare avanti
Se negli ultimi vent’anni non si è fatto nulla per cambiare le regole, quindi, è perché qualcuno non ha interesse a cambiarle. E se i nuovi strumenti economici auspicati dall’Italia non sono ancora stati creati, è perché qualcuno non ha interesse a crearli. Dunque, l’interesse nazionale esiste ancora e per tutti i principali governi europei resta la bussola da seguire nel contesto dei rapporti con le altre nazioni. Questa è la consapevolezza che l’Italia sta finalmente cominciando a maturare.
Il governo Conte, con tutti i suoi limiti, sta andando in questa direzione rifiutando il pericoloso MES e cercando convergenze con i paesi a noi più affini. Se questo sarà sufficiente è presto per dirlo. Ciò che possiamo affermare con certezza è che per costruire un mondo nuovo, più giusto e democratico, la fine del sogno europeo è fondamentale.
Federico Speme
La fine del sogno europeo è il secondo articolo della serie Un mondo nuovo, di Federico Speme.