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Così muore un nero – Il caso George Floyd

George Floyd

L’ennesima vittima

Non riesco a respirare“. Queste sono state le ultime parole di George Floyd mentre, con un ginocchio premuto sul collo, metabolizzava il fatto che quell’asfalto grigio sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbe visto. Lentamente, in una lunga e atroce agonia, sente i polmoni che si svuotano fino a capire di non avere scampo: “Mi ammazzeranno”. Smette di invocare aiuto e si abbandona a un destino che lo affianca a Eric Garner, Christopher Mitchell, Philando Castile e altri innumerevoli esseri umani che, oltre a una morte immeritata, hanno in comune il colore della pelle.

George viene ucciso il 25 maggio 2020 a Minneapolis, Minnesota, mentre quattro poliziotti lo stanno arrestando: loro bianchi, lui nero. I passanti riprendono la scena, avvertono gli agenti che George sta perdendo sangue dal naso, che quel ginocchio premuto sul collo gli impedisce di respirare. Uno dei poliziotti cerca di frapporsi tra la scena e i tanti obiettivi puntati su di essa, mentre gli altri tre non tolgono il loro peso dal corpo di George fino all’arrivo di un’ambulanza.

Anzi, non si spostano nemmeno mentre il paramedico cerca il battito sul collo dell’uomo. George viene caricato di peso sulla barella e messo sull’ambulanza. I poliziotti si scambiano una parola, un cenno, per poi lasciare la scena tra lo sgomento e le accuse generali. Così è morto George Floyd, così è morto un essere umano.

Un orrore quotidiano

“Essere un nero in America non dovrebbe essere una sentenza di morte“, commenta il Sindaco di Minneapolis Jacob Frey, prendendo subito le distanze dall’accaduto. Un’affermazione che, nel 2020, dovrebbe suonare scontata e obsoleta. Invece episodi del genere sono pane quotidiano nella cronaca americana: il paese che ha inaugurato la democrazia e che fonda la sua costituzione sull’uguaglianza di tutti non riesce a superare il dramma della segregazione.

I quattro poliziotti sono stati licenziati e la senatrice del Minnesota Amy Klobuchar ha chiesto un’indagine esterna e indipendente. Non ci si può lamentare, considerato come la quasi totalità di casi di questo genere finisca dritta nel dimenticatoio. Perché tanto è sempre colpa della vittima: che opponeva resistenza, che era armata, pericolosa, sospetta o che, come nel caso di George, presentava problemi di salute da prima dell’arresto. Le strade sono macchiate di sangue innocente e solcate da assassini a piede libero.

La politica della superficialità

Tutto questo dura da tanto, troppo tempo. Nonostante le manifestazioni contro questi crimini gratuiti, le proteste di movimenti come Black Lives Matter, gli scandali internazionali che si sollevano nei rari, rarissimi casi in cui queste vicende diventano virali; nonostante il riconoscimento universale di “I have a dream” come inno alla pace, e il doppio mandato del presidente di colore Barack Obama. Nulla di tutto questo è bastato a cicatrizzare quella che è forse la ferita più profonda nella storia americana: la discriminazione razziale.

E cosa fanno i “poteri forti” per affrontare questo ostacolo? Banalizzano la questione sfruttandola per manovrare l’opinione pubblica, attribuendole la stessa importanza di un meme – letteralmente: basta guardare alla Coffin Dance dedicata qualche giorno fa da Trump all’avversario Biden. Uno dei maggiori orrori contemporanei assume lo spessore di mera strategia elettorale, accompagnata dal pessimo gusto che caratterizza gran parte della politica odierna. Una politica superficiale che si nutre di scandali e valori approssimati, ed è troppo instabile per affrontare i problemi nascosti sotto di essi.

La discriminazione non è altro che una strategia per scaricare le proprie colpe su qualcun’altro, ma i pregiudizi che comporta sono così radicati nella società da oscurare questa verità. È una storia vecchia come il mondo -anzi, come l’uomo- che di volta in volta mira a obiettivi diversi. Nessuno è al sicuro dall’essere il potenziale nuovo bersaglio. George è morto soffocato, ma nessun uomo riuscirà a respirare liberamente fino a quando le particolarità che ci differenziano non saranno valori da proteggere, invece che difetti da condannare.

Clarice Agostini


Così muore un nero – Il caso George Floyd è un articolo di Voci, una rubrica a cura di Elettra Dòmini.

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