Cronaca

23 Maggio 1992 – Falcone: la morte di un giudice, la nascita di un ideale

23 maggio

Sono passati 28 anni da quel 23 maggio del 1992. Eppure, non ne basterebbero cento per placare lo stato d’animo che da quel giorno, dal momento in cui il giudice Falcone scomparve, si accese come una candela durante un blackout durato tanti, troppi anni. E poi nulla fu più lo stesso.

“Falcone deve morire”

Dopo Rocco Chinnici, Giovanni Falcone era stato il primo a mettere seriamente in difficoltà Cosa Nostra. Al punto che l’organizzazione mafiosa non lo considerava più soltanto fastidioso, ormai era arrivata a odiarlo.

Era lui che aveva istituito il “maxi processo“, lui che aveva capito e studiato le logiche interne alla mafia, sempre lui che era riuscito a far parlare Tommaso Buscetta. E proprio l’anno in cui “il boss dei due mondi” confessò, nel 1984 (8 anni prima della strage), si decise di comune accordo che Falcone doveva morire. Aveva ormai superato un punto di non ritorno.

Ci provarono più volte, all’inizio senza farsi notare, nel 1984 e nel 1987. E nel 1989 ci fu il primo vero e proprio tentativo: lasciarono una borsa con un esplosivo dove Falcone era solito fare il bagno, ma la scorta riuscì a individuarla prima che venisse azionata.

Siamo così al febbraio del 1992. Le condanne per i boss finalmente arrivarono e furono anche pesanti. Non c’era più tempo da perdere. Durante una riunione si decise luogo e modus operandi, sapendo che Falcone aveva un punto debole: l’abitudine. Dal momento che lavorava a Roma, ogni fine settimana doveva tornare nella sua città, Palermo, e ogni volta per arrivarci doveva passare necessariamente dal tratto di autostrada che attraversa Capaci. Dopo appostamenti durati settimane per conoscere alla perfezione i movimenti della scorta, arrivò il momento di agire.

Era il 23 maggio del 1992. Avevano solo qualche frazione di secondo, un unico tentativo; e questa volta non ci si poteva sbagliare. Prima, affiancarono le macchine per capire la velocità. Poi, una bomba, posizionata in cunicoli creati apposta, esplose e colpì in pieno la prima auto con gli uomini della scorta Vito Schifani, Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro, mentre la seconda, dove si trovava lo stesso Falcone con la moglie Francesca Morvillo, arrivò in quel punto leggermente in ritardo, ma non abbastanza per evitare il peggio.

Prima il giudice, poi l’uomo

Falcone, Borsellino, Chinnici e tanti come loro, erano magistrati, facevano il loro lavoro, ma non come tutti gli altri. La differenza non stava solo nel luogo di lavoro, nelle tematiche, nelle persone da affrontare o nella mafia in sé. Stava nelle bare. Le bare degli amici di una vita, dei colleghi con i quali hai preso il caffè soltanto poche ora fa. Le bare, quei signori, le avevano sotto i loro occhi ogni giorno, ne sentivano il peso quando le trasportavano fuori dalla chiesa, ne assorbivano l’angoscia e il terrore.

Davanti a uno spettacolo del genere chiunque avrebbe titubato, chiunque avrebbe dato priorità alla vita, chiunque avrebbe deciso di fermarsi senza il bisogno di spiegare il motivo. Ma loro no, loro dopo il funerale tornavano sui fascicoli più rabbiosi di prima. Tornavano al lavoro per onorare quei morti, perché fossero coperti di oro e non di fango.

Giovanni Falcone non era un uomo, almeno non uno come gli altri. Un uomo ha paura, un uomo viene travolto e distrutto dalla morte, dalla perdita del coraggio, dalla sconfitta dei valori. Ma Falcone no. Ha avuto paura, certo, l’ha avuta come tutti gli uomini a lui vicini quel giorno. Alla morte, ne sono sicuro, ci hanno pensato tutti ogni giorno prima di addormentarsi. Ma nella paura e nella morte loro ci hanno solo visto la rivalsa di un mondo che non poteva continuare a essere così.

Voglio ripeterli, i nomi di queste persone, voglio farlo all’infinito, perché rimangano per sempre nella nostra memoria: Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Di Cillo, Antonio Montinaro. Sono questi i nomi da ricordare, questi quelli famosi, quelli da nominare ogni 23 maggio. Riina, Brusca, Di Matteo, Bagarella, La Barbera, non sono uomini che meritano una memoria, non sono uomini da menzionare, non sono neanche uomini.

Antonio Mazzotta

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