Per il ciclo “The school must go on” Maddalena Ansaloni e Jon Mucogllava intervistano Massimo Dellavalle, dirigente dell’Istituto Superiore “Leonardo Da Vinci” di Cesenatico, uno dei primi a portare la didattica digitale nelle scuole. In particolare, ci si focalizza sul ruolo della didattica a distanza, sulle sue caratteristiche e sul suo futuro una volta terminata l’emergenza.
1. La nomina a dirigente dell’Istituto Superiore “Leonardo Da Vinci” di Cesenatico è molto recente e risale all’inizio dell’anno scolastico attualmente in corso. Com’è stato il passaggio dal ruolo di insegnante a questo nuovo?
Abbastanza traumatico direi, nel senso che il tipo di lavoro da svolgere è completamente diverso. I problemi che bisogna affrontare sono tanti, differenti e richiedono una buona capacità di organizzazione del proprio lavoro e di quello degli altri. È un incarico molto stimolante che al momento mi piace, anche se non ancora tanto quanto l’insegnamento.
Una condizione come quella che stiamo vivendo, ovviamente, non aiuta. Come ben sapete, non tutte le scuole sono strutturate, pronte, con personale a regime. Molti contesti possono essere più complicati rispetto a quello che appaiono.
2. Possiamo dire che aver insegnato a lungo possa aver contribuito al meglio a questo nuovo inizio da dirigente?
Direi che sia fondamentale. Si nota la differenza tra un dirigente che ha insegnato per parecchi anni e un dirigente che, per altre questioni personali, è sempre stato solo marginalmente dietro una cattedra. Il primo caso porta a conoscere nel dettaglio la situazione e a cercare di risolvere problemi che in altri contesti potrebbero risultare insormontabili. Sicuramente avere esperienza anche in ordini o indirizzi scolastici diversi è fondamentale per poter fare il dirigente, altrimenti si rischia di essere semplicemente il manager di situazioni che non si conoscono.
3. Entrando nella questione più attuale, dato che lei è stato uno dei primi a portare avanti la didattica a distanza, come è stata gestita nello specifico all’interno del suo liceo?
Potremmo distinguere un aspetto tecnico e un ambito culturale. Nell’aspetto tecnico si sono raccolti i frutti di una didattica digitale già sottotraccia, che il mio istituto aveva messo in piedi da circa tre anni. In questa ottica abbiamo utilizzato piattaforme come Meet e Google Classroom. Contemporaneamente è partito un corso di formazione intensiva per i docenti meno alfabetizzati e nel giro di dieci giorni eravamo già a sistema con un calendario di lezioni e spazi appositi per garantire l’appoggio psicologico, i colloqui con i genitori e il dialogo tra insegnanti. Per quanto riguarda l’ambito culturale, invece, c’è stata una rivoluzione sotto molti aspetti. Strumenti, a volte considerati come “distrattori” si sono rivelati invece utili. È un po’ una caratteristica umana quella di avere paura delle novità e nella scuola si manifesta ancora di più.
Da una parte c’è stata un’accettazione di questi strumenti che mi ha anche sorpreso, dall’altra una considerazione sul valore della tecnologia. Queste esperienze ci stanno dimostrando che l’anno scolastico rimane comunque valido perché il diritto allo studio nella maggior parte dei casi viene garantito. Di conseguenza si può ripensare al tempo scuola e all’ipotesi di rendere questi strumenti definitivamente ausiliari alla didattica tradizionale.
4. Nel caso del suo istituto, è stata un’eccezione di fronte a quello che di solito è l’atteggiamento delle scuole italiane nei confronti di queste nuove tecnologie?
No, non direi. L’Emilia-Romagna è fortunata, nel senso che gli investimenti fatti sulle strutture digitali hanno sempre dato importanti risultati. Inoltre, a livello socio-economico gli adolescenti sono dotati di questi strumenti, li conoscono e li usano. Altre scuole con difficoltà economiche ed enti pubblici meno presenti si sono mossi con più difficoltà.
5. Ultimamente si sente molto parlare di studenti di serie A e di studenti di serie B, cosa pensa di questa differenza?
Bella domanda. È una differenza da rimuovere perché separa sacche di popolazione ed è considerabile come un nuovo analfabetismo. Se ci fosse oggi Don Milani direbbe che gli ultimi non sono più quelli che non sanno leggere o scrivere, ma chi per una difficoltà tecnica o economica o sociale non ha accesso alla rete, e chi culturalmente dispone di questi strumenti ma non li sa usare in maniera nobile come per l’apprendimento.
6. È una situazione che ha colto un po’ tutti impreparati. Ora ci si sta organizzando per fornire computer e altri strumenti ma, passato più di un mese e mezzo, si è già creato un divario.
Molte scuole che conosco stanno facendo adesso gli acquisti per i device, quindi direi che arriveranno quando non serviranno più. Anche altri enti pubblici, comuni e regioni, si sono mossi e hanno dato fondi però la burocrazia ostacola e ritarda la procedura.
7. Di fronte ad una situazione dove la didattica a distanza è l’unica opzione rimasta per le scuole, ha notato i limiti che essa comporta?
I limiti ci sono, come in ogni cosa. Quello più grande è capire, anzi, non capire che la didattica a distanza non è uguale a quella in presenza, come tempo, ritmi e anche come metodologie didattiche. Uno dei problemi principali è la valutazione. Bisogna capire che la didattica deve essere diversa: non può più essere basata sulla ripetizione di contenuti, deve in un qualche modo misurare le competenze, l’impegno, la capacità di ragionare. Questo è un aspetto importante perché dovrebbe servirci a costruire una didattica più sensata, anche in futuro.
Un’altra criticità è legata al sovraffaticamento. Lavorare con la didattica a distanza costa molto più impegno ai docenti rispetto alla didattica in presenza: bisogna selezionare i contenuti, trattarli in meno tempo, con una soglia dell’attenzione molto più bassa, senza il contatto fisico che permette di orientare la lezione in funzione di come risponde la classe. È un lavoro che stanca molto, e per questo abbiamo ridotto l’orario. Gli studenti, in buona parte, hanno capito e si sono impegnati anche loro; altri hanno sfruttato questa situazione facendo poco o nulla.
Una grande criticità è invece legata alle fasce più deboli: gli studenti con bisogni educativi speciali. Lì la situazione è veramente critica, i ragazzi certificati sono guidati dall’insegnante di sostegno e anche dagli educatori che i comuni mettono a disposizione, ma i DSA sono più difficili da seguire. Abbiamo cercato di mettere in piedi un sistema di supporto con le ore di potenziamento, ma non sempre riesce. Prendendo come campione la mia scuola di un migliaio di studenti circa, c’è una fetta di circa 30/40 ragazzi che hanno disturbi specifici di apprendimento e che pagano molto questa situazione.
8. In alcune situazioni è proprio la scuola il punto d’incontro che può salvare i ragazzini da realtà difficili.
Sì, la scuola come luogo di cittadinanza, dove impari a essere cittadino mentre il mondo ti insegna altro. Saranno casi isolati ma sono studenti anche loro. In certe dichiarazioni che si sentono oggi sembra che sia un luogo di parcheggio. La più grande preoccupazione è non saper dove mettere i figli se le scuole sono chiuse. È un problema anche questo, certo, ma la scuola è altro.
9. Ultimamente un tema molto caldo e discusso è l’esame di Stato. Lei come giudica le scelte prese finora?
Non esprimo giudizi perché è difficile in questa situazione. Una cosa che mi dispiace è che questa classe di maturandi non avrà tutto quel contorno di socialità, dai 100 giorni alla notte prima degli esami, che invece comunque rappresenta un momento importante di coesione. Questo purtroppo non ci sarà.
La scelta è quella meno pericolosa secondo me, a metà strada si pone in una situazione di compromesso. Ancora non è uscito niente di ufficiale se non le commissioni interne e il fatto che dovremmo rivedere i criteri di valutazione; quello è un po’ il nostro lavoro. Poi ci sono responsabilità per il datore di lavoro, come ad esempio l’assicurare la salute degli insegnanti. Io, più che per l’esame, sono preoccupato per settembre. Quello delle aule è un problema storico e sarà difficile risolverlo prima del ritorno sui banchi.
10. Anche la maturità dell’anno scorso è stata un po’ strana, in un clima di disordine generale. Questa è ancora peggio. Possiamo dire che l’esame sia fondamentale perché rappresenta un rito di passaggio?
Sì, questo è vero, però ci fa riflettere anche sull’inutilità di molti processi che mettiamo insieme. Ci si ingegna e poi alla fine si deve andare all’essenziale. Il colloquio è sicuramente una delle forme più adatte per valutare la maturità, almeno questo cerchiamo di garantirlo.
11. Quale futuro si augura per la didattica a distanza?
Sicuramente che questi strumenti che ora conosciamo bene diventino parte dell’istruzione togliendo alla didattica digitale l’aggettivo, perché si tratta a tutti gli effetti di didattica. Mi auguro che ci si renda conto che questi strumenti permettono non solo di sopperire alle emergenze, ma anche di fare lezioni in modo diverso: basandosi su aspetti legati alle competenze piuttosto che a una didattica trasmissiva. Sono però poco fiducioso, perché siamo un paese che dimentica in fretta. Finché c’è l’emergenza ci stracciamo le vesti, e poi si ritorna al mondo di prima. Questa situazione dovrebbe essere il grimaldello che scardina la scuola tradizionale, rimasta a due secoli fa mentre ogni altro aspetto della nostra vita è in continua evoluzione.
Maddalena Ansaloni – Jon Mucogllava
(In copertina Jordan Sanchez da Unsplash)
Per approfondire, la presentazione del progetto The school must go on, a cura di Clarice Agostini