Voci è una rubrica che serve per permettere a ogni individuo che senta la necessità di esprimere un’opinione di esprimerla. Quindi, visto che apparentemente non abbiamo urgenza di commentare per l’ennesima volta i disastri di una pandemia globale, un terremoto, l’incendio in Australia, quello vicino a Chernobyl, l’invasione delle vespe killer, e a nessuno fregherà niente di sapere dell’incidente stradale che ha avuto la mia famiglia esattamente allo scoccare della mezzanotte del 1 Gennaio 2020, come se qualcuno lassù avesse gentilmente voluto avvertirci di tutta la cacca da cui saremmo stati travolti quest’anno, direi che sia arrivato il momento di parlare di Aisha. Anzi no, parliamo di tutte e due: Silvia Romano e Aisha.
Chissà quanti articoli e quanti punti di vista stanno scrivendo i ragazzini ispirati da questo argomento – ed è solo un bene secondo me che si parli apertamente di questa questione, con parole civili e adulte e censurando chi ha il coraggio di commentare su Instagram “quanto ci è costata???!” – e chissà quanti articoli sono stati scritti, dalla destra e dalla sinistra, tralasciando per pudore verso l’intelligenza presunta che la civiltà dovrebbe avere, titoli di giornale in prima pagina come “abbiamo liberato un’islamica”, “islamica e felice, Silvia l’ingrata”.
Chissà quante domande sono sorte nella mente di chi ricordava una Silvia con i capelli sciolti, vestiti estivi e un gran sorriso, e si è ritrovato davanti una Aisha con lo jilbab, i capelli raccolti come da tradizione islamica, e lo stesso sorriso di prima. Qualcosa è cambiato, ma bisogna guardare ciò che non è più come prima o il fatto che ci siano invece molte più cose che, per fortuna, sono rimaste come prima, come il sorriso, la vita? Certo, è una domanda retorica. La vita di Aisha è cambiata, ma c’è ancora.
Quasi nessuno può permettersi di pensare di capire cosa succede nella mente di chi viene sequestrato per diciotto mesi, viene venduto, non sa se rivedrà la sua famiglia, e subisce traumi inconsci di cui nemmeno la persona stessa può arrivare a rendersi conto. Non è normale che dopo tutto quello che Silvia ha passato, razionalmente e senza la violenza psicologica di nessuno, lei stessa abbia deciso di abbracciare una parte di sé che condivide un qualcosa con i suoi rapitori, ma così è successo e che sia una sindrome di Stoccolma o un ragionamento del tutto razionale nato da una serie di considerazioni personali, ogni persona che ha trovato interessante questa storia rubata, deve accettare senza giudicare, perché non ne ha i mezzi. Ma è normale considerarlo una cosa fuori dall’ordinario.
Vorrei fosse chiaro un concetto che, dal più esaltato al più buonista al più aperto mentalmente, è ancora molto difficile da tenere a mente: non stiamo parlando di musulmani. Non stiamo contestando o parlando di una religione in particolare, anche se con i precedenti che le nostre civiltà così diverse hanno, è molto difficile da credere. Si parla di terrorismo, che è composto da terroristi, che come mi hanno ricordato in molti non sono certo persone cattive perché vengono fuori da una storia di Star Wars e hanno tutti spade laser rosse come simbolo del male assoluto, ma si fanno protagonisti di avvenimenti sconcertanti per raggiungere obiettivi che, da un punto di vista molto diverso dal mio e penso da ogni persona con un senno abbastanza sviluppato, sono quasi comprensibili.
Che sia terrorismo di destra o di sinistra, buddista, cristiano o islamico, sono state compiute delle azioni che non sono liquidabili con la testimonianza di un sorriso, per quanto bello, di una ragazza che dice di stare bene. Non si può riassumere un rapimento durato diciotto mesi e sei prigioni diverse con “non ho mai subito violenza, non mi hanno picchiata, in questo periodo mi hanno spiegato le loro ragioni” solo per dare un lieto fine, perché certo, è una fortuna che Silvia – anzi, Aisha – sia viva, ma perché non è la solita sorte che spetta alle vittime del terrorismo islamico. Ci sono donne che, se non si convertono al Corano, vengono spesso utilizzate come schiave sessuali; e donne che, se vogliono ricevere una buona istruzione, vengono uccise nelle scuole in cui tanto desiderano andare.
È da condannare l’atto, senza essere sempre risucchiati dalla convinzione cieca del fatto che chi parla di Islamismo in relazione al terrorismo sia razzista a prescindere. Si deve parlare delle cose che suscitano scalpore per dominare la paura di trovare cose più scabrose dietro, e per imparare a comprendere quello che, da giudicare o no, non comprendiamo.
Bisogna tirare fuori quello che ci fa paura dell’islamismo per superare la xenofobia – comune a chi la manifesta apertamente ma anche a chi la vede in ogni commento semplicemente aperto al dialogo e non con la chiusura mentale che tanto la caratterizza – di un popolo con pensieri diversi dai nostri, e bisogna invece tirare indietro la presunzione di poter commentare qualsiasi comportamento umano al di fuori dell’ordinario, perché va bene non comprendere tutto subito, se si ha la pazienza di ascoltare.
Elettra Dòmini
Bentornata Aisha è un articolo di Voci, una rubrica di Elettra Dòmini, a cura di Elettra Dòmini e Davide Lamandini.