Peppino Impastato è l’esempio forse più evidente di come non serva essere un funzionario dello Stato per finire nel mirino della mafia. Il suo nome riecheggia ogni anno, non perché la sua morte sia più importante delle altre, ma perché deve essere il punto di riferimento per quei giovani che per un ideale, una semplice convinzione, darebbero volentieri la vita.
Rinnegato o rinnegatore?
Peppino nacque a Cinisi (PA) nel 1948, ma la storia di un’infanzia felice e spensierata come tante nel suo caso non regge. La famiglia era collusa con la mafia, il padre, Luigi Impastato, pur non essendo un boss collaborava con la cosca del paese. Non superò i 15 anni in quella casa che il padre lo cacciò per le sue idee troppo moraliste e pericolose.
Non poteva però essere una famiglia del genere a fermare l’animo di un giovane come Peppino: “E questa è la mafia? Se questa è la mafia allora io la combatterò per il resto della mia vita.”
La strada che dovette costruirsi da solo lo portò alla fondazione, nel 1977, del suo progetto più bello: Radio Aut. Radio prettamente privata e autofinanziata con la quale denunciò, con parole non poco dirette, avvenimenti, delitti, affari e interessi della mafia a Cinisi. Gli speaker non volarono bassi, puntarono subito al sole dimenticando l’esperienza di Icaro. Il principale obiettivo degli attacchi di Radio Aut era il nuovo capomafia Gaetano Badalamenti.
Un suicidio imperfetto
Servì un anno, non di più, a Peppino e alla sua radio per diventare assordante all’interno del paese e anche oltre. Nel 1978 Peppino decise di fare un ulteriore passo in avanti nella lotta per cui ha dato la vita, si candidò nelle liste di Democrazia Proletaria alle elezioni comunali del 14 maggio. Non arrivò mai a scoprire i risultati. La campagna elettorale schietta e diretta contro la criminalità organizzata decretò la sua condanna a morte. Badalamenti ordinò il suo rapimento la notte tra l’8 e il 9 maggio e nello stesso momento anche l’uccisione. Prima immobilizzato sui binari e poi fatto saltare in aria con il tritolo.
Eppure la sua morte passò subito in secondo piano, sia agli occhi dell’opinione pubblica, sia dal punto di vista giuridico. Nel primo caso, perché la mattina dello stesso giorno, a Roma, venne ritrovato il corpo dell’Onorevole Aldo Moro. Nel secondo, perché la scomparsa di Impastato fu subito considerata un attentato terroristico finito male e lo stesso Peppino, da eroe, divenne un terrorista.
La bellezza
«Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore». – Peppino Impastato
E forse proprio la bellezza della missione di Peppino ha portato poi alla giustizia. Si movimentarono migliaia di persone per omaggiare la sua morte, tutti sapevano chi lo aveva ucciso e presto sarebbe venuto fuori. La madre Felicia si impegnò attivamente nella ricerca della verità che nessuno ancora le aveva dato.
Nel 1984 l’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, sulla base delle indicazioni del Consigliere Istruttore Rocco Chinnici (anche lui ucciso da Cosa Nostra), emise una sentenza in cui si riconobbe la matrice mafiosa del delitto, attribuito però ad ignoti. Solo nel 1997 Badalamenti fu inquadrato e incriminato come mandante dell’omicidio.
Risulta difficile nel 2020 capire il coraggio che ebbe Peppino Impastato. La sua non era una semplice scelta, non un modo per emergere, era una morte segnata e lo sapeva bene. Tra le ruote della mafia non potevi mettere un bastone, anche il più resistente mai creato, perché Cosa Nostra ti schiacciava senza farti mai più rialzare; e Peppino ne ha fatto le spese. La sua forza e bellezza fu proprio questa: la consapevolezza di essere di un fiore velenoso che da solo fa poco ma che in un prato, insieme a tanti altri, diventa tossico.
Antonio Mazzotta