Interviste

“Mia figlia ha fatto coming out”

Coming out

È un torrido pomeriggio di metà giugno, quando io ed Elettra arriviamo a Casalecchio di Reno per realizzare una nuova intervista. Io ho in mano un telefono per registrare e un taccuino con gli appunti preparati a casa, Elettra una bottiglietta d’acqua per cercare di sopravvivere all’afa e – non chiedetemi perché – anche una crema al caffè. Ci sediamo sull’unica panchina all’ombra, intorno non soffia un filo di vento.

L’idea è semplice: porre delle domande a genitori di ragazzi omosessuali, per cercare di superare i soliti vaghi stereotipi che avvolgono come una coperta calda e rassicurante le nostre vite e offrire un’esperienza diretta di emozioni e sensazioni. I quesiti partono da quando i figli hanno fatto coming out, dalle reazioni e dalle difficoltà da affrontare, per arrivare agli immancabili consigli da dispensare a famiglie che si trovano nella medesima situazione.

Abbiamo deciso di pubblicare in formato integrale questa intervista, fatta la scorsa estate alla madre di una ragazza che chiameremo Sara, perché pensiamo che rappresenti bene la sintesi del progetto sviluppato. Non credo che ci sia altro da aggiungere. Benvenuti sul Punto, nel primo episodio della sezione Incontri.

Davide Lamandini


Il Punto
1. Quando Sara ha deciso di fare coming out, qual è stata la reazione e che sentimenti hai provato come madre?

È un po’ complesso e articolato da spiegare, perché a livello emotivo le cose sono tante. Inizialmente ho provato stupore e mi sono chiesta come avessi fatto a non accorgermene prima; poi, ripensandoci, in realtà non è che uno se ne possa accorgere davvero. Dopo lo stupore, sono stata travolta da un grande bisogno di offrire protezione a mia figlia, perché immediatamente come genitore ti immagini tutti i problemi che potrebbe avere in futuro, scontrandosi con realtà di persone chiuse o poco tolleranti che la possono mettere in difficoltà.

E, infine, la consapevolezza che nella vita si passano fasi – tutti le passiamo –, di conoscenza di noi stessi. Lei, come tutti gli adolescenti, ha intrapreso questo percorso e, dal mio punto di vista, l’importante fin dall’inizio è stato cercare di appoggiarla, trasmetterle tutto l’appoggio e la serenità possibili e nel frattempo capire che strumenti mettere in campo per sostenerla di fronte a qualsiasi tipo di situazione si trovi ad affrontare. È chiaro che lei, quando ha preso la decisione di dirlo a me e a suo padre, aveva già fatto parte del viaggio, però penso – spero – anche che nella nostra famiglia abbia sempre avuto la serenità sufficiente per potersi aprire.

E in me c’era anche il desiderio di supportarla in un cammino di valutazione continua di sé stessa e delle sue esigenze e problematiche, perché effettivamente si tratta di una strada che comunque tutti noi dobbiamo percorrere.


Il Punto
2. Hai parlato di bisogno di “offrire protezione” a tua figlia. In che modo si concretizza questo sostegno e come si può mediare tra l’aiuto del genitore e l’individualità di questo percorso interiore?

Uno psicologo un tempo mi disse che i genitori da sempre vorrebbero mettere una campana di vetro sopra i propri figli e nasconderli lì sotto per tenerli protetti da tutto il male che possono incontrare nel mondo. Credo che sia semplicemente la nostra natura. La realtà è che il nostro ruolo consiste principalmente nel fornire loro gli strumenti per gestire il dolore e la sofferenza che, come è naturale che sia, verranno. Anche perché prima o poi bisogna uscire dalla campana e affrontare il mondo, e più tardi avviene più male fa.

Mia figlia, da una parte deve sapere che io e suo padre ci siamo sempre e per qualsiasi cosa, e dall’altra che in un qualche modo deve trovare lei, dentro di sé, queste strade. Noi genitori spesso facciamo fatica a capire che non abbiamo più di fronte i bambini piccoli che imboccavamo quando non avevano voglia di mangiare o che ci svegliavano piangendo nel cuore della notte. Man mano che crescono diventano persone con un carattere che va formandosi nel tempo, e la nostra diventa un po’ una lotta tra lo spirito di protezione e la consapevolezza che ogni percorso va affrontato prima di tutto a livello individuale, senza forzati interventi esterni.


Il Punto
3. Quando ha deciso di fare coming out, Sara aveva già un’età sufficiente per instaurare un dialogo con i genitori e per affrontare la situazione?

Voi non lo potete sapere, ma mia figlia era grande anche quando aveva un anno. Tra noi genitori e lei figlia c’è sempre stato un dialogo profondo e maturo; in un qualche modo abbiamo sempre cercato di incoraggiarla a sviluppare un rapporto di scambio costante.

Quando ha portato a compimento il suo percorso interiore ed è arrivata alla decisione di raccontarcelo, è avvenuto tutto attraverso il confronto e il dialogo, proprio perché quello che ci stava dicendo per lei era importantissimo e fondamentale. Per prima cosa io mi sono trovata ad accettare e poi, in secondo luogo, a confessarle le mie paure, non mettendo in discussione la cosa ma semplicemente condividendo con lei le mie preoccupazioni per andare avanti, per quanto possibile, insieme.


Il Punto
4. Dopo il coming out in un certo senso è anche cambiato il rapporto con tua figlia?

In realtà secondo me no. Cioè, faccio fatica a darti una risposta sensata, ti dico la verità, perché mi rendo conto che il rapporto cambia ogni giorno. Si trattava comunque di un suo cammino di crescita, era un’età in cui letteralmente ogni giorno si è diversi, ogni giorno si scoprono cose nuove, in cui si è alla costante ricerca di una propria identità. In realtà poi ci si continua a mettere in discussione tutta la vita – e ve lo dico a cinquant’anni. Ma non è stato tanto il coming out di mia figlia a cambiare il nostro rapporto, è stata la crescita, quell’evoluzione che naturalmente avviene in ognuno di noi.


Il Punto
5. Se non è cambiato il rapporto genitori-figlia, come è andato quello che aveva normalmente con gli altri parenti e, più in generale, con gli amici? Quindi in un certo senso è anche cambiato il rapporto con tua figlia?

È una domanda molto difficile. Sono sincera, so che mia figlia lo ha detto ad alcune persone in famiglia, ma non sono certa che lo abbia fatto con tutti e non mi sono mai permessa di chiederle con chi sì e con chi no, è una scelta solo sua in cui non mi posso intromettere.

In ogni caso può succedere che certe reazioni si discostino da quello che vorrei per mia figlia e possano provocare rotture o comunque tensioni nei rapporti. Non so bene come possa essere il primo impatto – quello istintivo –, e un po’ lo temo perché non vorrei che una reazione di questo tipo possa generare in lei del disagio.


Il Punto
6. Cosa provi quanto senti in televisione o leggi su un giornale di un attacco omofobo?

Più che altro mi irrita – nel senso che tocca il sistema nervoso – e deprime, in un certo senso. La rabbia è un sentimento diverso, ma l’irritazione deriva dal fatto che si tratti di dinamiche molto più subdole. E penso che sempre di più sia necessario dire la propria, una cosa che negli ultimi anni sempre di più emerge. Fino a qualche tempo fa non ero il tipo di persona che prendeva su e si muoveva, anche solo per dire un fermo “no”. Adesso ritengo che in questa fase storica e sociale sia necessario fare qualcosa, dire proprio dire dei “no” e mettere degli striscioni fuori dalle finestre.


Il Punto
7. Eri già in un qualche modo coinvolta nella comunità LGBTQIA prima del coming out di Sara, per conoscenze o per la partecipazione a pride o a manifestazioni varie?

Nella vita ho conosciuto carissimi amici che sono omosessuali, con molti ho anche lavorato, e questo ha creato una contiguità veramente quotidiana. Con un caro amico che conosco da vent’anni mi è capitato di frequentare anche feste o cene insieme con gruppi misti trovandomi a essere in alcuni casi l’unica donna eterosessuale. Però non sono mai stata coinvolta come attivista, è più un discorso di conoscenze personali.


Il Punto
8. Cosa ne pensi dell’inserimento nei programmi scolastici di un certo quantitativo di tempo dedicato all’educazione affettiva, anche omosessuale ma non solo?

Il problema vero, secondo me, è che la nostra scuola non è in grado di farlo. Penso che, soprattutto in questo periodo storico, non lo possa fare con il giusto equilibrio e con la consapevolezza della delicatezza dei tasti che si va a toccare parlando di argomenti di questo tipo. In un mondo perfetto, dal mio punto di vista, sì, ovviamente; in questo non vi saprei dire se l’effetto sarebbe più positivo o più negativo, perché il rischio di essere fraintesi o strumentalizzati dai bambini o dai ragazzi ma anche dai genitori è sempre dietro l’angolo.

E questo non solo per la sessualità, ci sono tanti temi che la scuola non tocca o che tocca molto raramente, spesso non solo per chiusura mentale o paura, ma anche proprio perché è molto difficile per gli insegnanti chiamati a parlarne in classe, provate a mettervi nei loro panni.


Il Punto
9. Che consigli ti sentiresti di dare a un ragazzo che si trova di fronte a scegliere se fare o meno coming out e ai genitori che si trovano a vivere questa scelta?

Penso che non ci siano ricette facili, tutto dipende dal rapporto già esistente tra genitori e figli e anche dai caratteri delle persone coinvolte. In entrambi i casi però consiglierei di mettersi nei panni dell’altro: il figlio in quelli del genitore, che deve fare i conti con tante emozioni, spesso contrastanti e difficili da gestire; e il genitore in quelli del figlio, che deve fare un grande sforzo per aprirsi su un tema così personale.

Ecco, immaginarsi per cinque minuti di essere l’altro non cambia le cose ma può aiutare a capire come dirle. Al figlio poi io suggerirei sempre di parlare anche e soprattutto di quello che si prova, in modo sincero, delle proprie paure e dei propri timori, aprirsi in un qualche modo alle proprie emozioni e a quelle dell’altro. Al genitore invece, oltre a questo, direi anche di fare un bel respiro e mettere da parte la paura, pensando sempre di avere di fronte una persona, al di là del figlio.


L’intervista ormai volge al termine. Elettra è riuscita pure a esaurire la sua crema di caffè e il suo sguardo languido tradisce una crisi di astinenza in avvicinamento. Ci congediamo e raccogliamo gli appunti di tutte le emozioni chiedendoci come poterle trasferire, più tardi, in un testo di senso compiuto. Speriamo, in un qualche modo, di esserci riusciti.

Un’intervista a cura di Elettra Dòmini e Davide Lamandini


Il Punto

Il Punto. Un’idea originale di Davide Lamandini. Consulenza editoriale di Clarice Agostini, Iacopo Brini, Elettra Domini e Francesco Faccioli. In copertina Margaux Bellott da Unsplash.

Sull'autore

Classe 2000. Mi piacciono le storie, qualsiasi sia il mezzo che le fa circolare o la persona che le racconta. Credo nella letteratura, nel tempo che passa e nelle torte al cioccolato per le giornate più tristi. Aspetto con impazienza domani e, nel frattempo, leggo, scrivo e traduco qualche lingua morta persa in un passato lontanissimo.
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