All’interno del ciclo di articoli “Dieci anni sostenibili“, abbiamo intervistato Paola Fabbri, professoressa associata di Scienza e Tecnologia dei Materiali dell’Università di Bologna e parte dell’inchiesta “Amazon, uno smaltimento al di sopra di ogni sospetto”.
1. Una domanda di introduzione generale: può darci una panoramica su quali e quanti siano i tipi di plastica che esistono?
Le plastiche si dividono in diverse categorie. Esistono circa un’ottantina di tipologie diverse di materiali polimerici, ovvero di strutture molecolari sulla base delle quali si sviluppano poi le vere e proprie plastiche, formulazioni che mescolano il polimero, cioè la base macromolecolare, con una serie di additivi. Quindi in realtà lo stesso polimero può dar luogo a molte plastiche diverse.
Le strutture polimeriche di interesse industriale sono alcune decine, dalle quali però derivano decine di migliaia di gradi commerciali. Solo di polipropilene adesso ce ne sono 9000 gradi, è il polimero più diffuso a livello commerciale e da solo dà luogo a tantissime ricette che vengono poi vendute.
Queste decine di “tipologie” di plastiche sono poi divise in tre categorie principali; le commodities, ovvero polimeri di larghissimo impiego, polimeri di massa insomma; tecnopolimeri, polimeri di ampio utilizzo, ma di prestazione e costi più avanzati, per applicazioni ingegneristiche; e infine polimeri speciali, quelli per applicazione biomedicale, per lo spazio, eccetera.
2. Si può dire dunque che il mondo della plastica sia molto variegato, mentre spesso sentiamo parlare anche delle bioplastiche: qual è la differenza tra una bioplastica e il materiale plastico tradizionale?
La differenza fondamentale sta nello sviluppo delle macromolecole. Le plastiche tradizionali si ottengono dalla polimerizzazione di monomeri, a loro volta ottenuti dal cracking del petrolio, quindi da fonte fossile, petrolchimica. Le bioplastiche invece si ottengono da biomasse, quindi da fonti biologiche e rinnovabili, come le piante, che vengono opportunamente trattate dal punto di vista chimico o chimico-fisico, per estrarre monomeri che poi verranno polimerizzati in polimeri. La differenza fondamentale quindi è l’origine.
È importante poi dire che la biodegradabilità non è necessariamente una proprietà intrinseca delle bioplastiche, può esserci come no. La biodegradabilità si può esprimere o in maniera molto controllata in siti di compostaggio industriale, ovvero impianti di trattamento dei rifiuti organici nei quali popolose colonie batteriche digeriscono la plastica. I poliidrossialcanoati sono le uniche bioplastiche che sono spontaneamente biodegradate in ambiente aperto. In questo senso, vediamo che anche alcune bioplastiche marchiate come “biodegradabili”, in ambiente aperto potrebbero non biodegradare per nulla.
3. Ci potrebbe fare un esempio di bioplastiche che si trovano intorno a noi?
I poliidrossialcanoati che ho citato prima sono plastiche nuove, ci son solo tre o quattro siti in tutto il mondo che la producono. Quindi intorno a noi non ce ne sono per nulla. Ci sono però altre bioplastiche molto più comuni, per esempio il PLA, l’acido polilattico. Moltissime vaschette per gli alimentari vendute nei supermercati, se sono compostabili, sono in PLA. Anche i bicchieri di plastica usa e getta compostabili sono in PLA. Le bioplastiche più diffuse in Italia sono le miscele di amido termoplastico, parliamo dei sacchetti dell’umido organico o quelli per la spesa.
4. Biodegradabile e compostabile sono sinonimi?
La compostabilità è un sottoinsieme della biodegradabilità. Per “materiale compostabile” si intende infatti un materiale biodegradabile in condizioni di sito industriale di compostaggio, cioè grazie a colonie batteriche selezionate e molto popolose, a temperature di almeno 70° e a umidità relativa di almeno 80/85%. Le industrie cercano di rendere le plastiche biodegradabili anche compostabili, in modo che possano essere gestite a fine vita d’uso in un impianto di gestione dei rifiuti.
5. Invece, cosa si intende per materiale “bio based”?
Il termine “bio based” sta ad indicare una sola cosa, che si tratta di plastiche che non vengono dal petrolio ma da biomasse, quindi da piante, oli vegetali, materiale rinnovabile insomma. Questa proprietà non comporta necessariamente biodegradabilità. La bioplastica più diffusa, il biopolietilene, quello dei tappi delle bottigliette per intenderci, si può ottenere anche dalle canne da zucchero, oltre che dal petrolio.
6. Spesso quando si parla di plastica, è inevitabile cadere nell’argomento inquinamento. Esiste un modo per impedire che rimangano materiali plastici all’interno dell’ambiente?
Il problema della dispersione della plastica nell’ambiente è un problema creato esclusivamente dall’uomo e, come tale, la soluzione è l’uomo. La plastica non ha una sua particolare predisposizione a finire nell’ambiente, il problema è la gestione da parte dell’utilizzatore. Nei paesi in cui c’è una gestione virtuosa dei rifiuti, come nella maggioranza dell’Europa, il problema è molto ridotto. La maggior parte delle plastiche che finiscono, e rimangono, nel mare non viene dal nostro continente, che pure è uno di quelli che più ne fanno uso, ma dai grandi fiumi del Sud-Est asiatico, usati per smaltire i rifiuti.
A livello globale, bisogna portare la soglia della raccolta del rifiuto e del trattamento molto più in alto del punto in cui si trova adesso. Il problema non è incentivare la raccolta differenziata e il riciclo in Europa, si tratta di un’abitudine già abbastanza diffusa, il problema sono i paesi nei quali i sistemi di gestione dei rifiuti non sono efficienti come qua: i rifiuti si spostano via mare e facilmente arrivano da noi. Già negli Stati Uniti le politiche di gestione dei rifiuti sono molto indietro rispetto all’Europa.
7. Da parte delle filiere che se ne occupano, esiste un modo per riciclare completamente i materiali plastici? È conveniente riciclarli?
La cosa più semplice e economicamente più vantaggiosa sarebbe rilavorarli per via meccanica, per ricostruire oggetti nuovi. Questo processo però con le plastiche è difficilmente possibile o poco conveniente dal punto di vista economico. Quella grande variabilità di tipologie di plastiche di cui vi parlavo prima le rende tra di loro non lavorabili congiuntamente nei flussi di riciclo.
Il problema del riciclo meccanico delle plastiche è il problema dell’efficiente separazione del riciclo misto in tipologie identificate di polimeri. Se esistessero dei modi per selezionare i rifiuti in maniera molto precisa sulla base della tipologia, allora un flusso omogeneo di plastica si potrebbe rielaborare molto meglio, anche economicamente. Inoltre, rielaborare queste plastiche per via termomeccanica comporterebbe al prodotto finale proprietà più scadenti, a causa di eventuali degradazioni durante il processo.
In sostanza, avremmo sul mercato plastiche più brutte, più scadenti e più costose di quelle vergini. Adesso si sta cercando di investire molto sul riciclo di tipo pirolitico, ovvero un trattamento termico, in assenza di ossigeno, che rompe le catene dei polimeri per poi distillarne le fazioni, in modo da riottenere dei monomeri ripolimerizzabili.
8. In cosa consiste esattamente l’economia circolare e come si può incentivare?
Ultimamente si sta cercando di ottenere un’economia circolare delle plastiche combinando diversi approcci:
- Convertendo le plastiche fossili, quando possibile, in plastiche bio based;
- Cercando di portare le plastiche non riciclabili meccanicamente verso un riciclo pirolitico o chimico [scissione dei legami chimici e formazione di molecole più semplici];
- Incentivando l’utilizzo di plastiche riciclate meccanicamente come ad esempio il PET delle bottiglie di acqua, disponibile in grandi quantità, anche con l’aiuto di leggi specifiche.
Se esistessero imposizioni legislative sull’utilizzo di plastiche riciclate si otterrebbe un passo in avanti verso l’economia circolare della plastica anche perché ad oggi è difficile che le aziende scelgano materiali riciclati che costano in genere circa il 30% in più rispetto al prodotto vergine.
9. A che punto è la ricerca di materiali plastici nuovi laddove l’utilizzo di tali materiali è indispensabile?
Da anni ormai la ricerca non si focalizza più sulla sintesi di nuovi polimeri a scopo industriale anche perché ci sono moltissimi nuovi materiali. L’approccio è cambiato e la ricerca si sta orientando verso la sostenibilità: materiali bio based, prodotti riciclabili sia per via organica che batterica, e le specialties, ovvero plastiche con altissime prestazioni, polimeri di nicchia con determinate funzioni. La ricerca di nuovi materiali è ad oggi una strada poco battuta, ci si focalizza più sull’impatto ambientale dei polimeri.
10. Cosa ne pensa della Plastic Tax come deterrente all’utilizzo della plastica anziché un investimento sull’innovazione del materiale? Funziona tassare per ridurre la produzione del materiale o sarebbe meglio investire nella ricerca mantenendo la produzione attuale?
Personalmente ritengo che il provvedimento sia stato in qualche modo scriteriato perché anziché promuovere lo sviluppo incentivandolo, e quindi investendo in un settore, verso la sostenibilità si è optato per delle imposizioni legislative che hanno un ritorno economico immediato. È stata scelta la strada più facile che non ha però una chiara finalità a lungo termine; lo dimostra il fatto che nell’intero testo del provvedimento non figurano le parole “sostenibilità” o “inquinamento” come scopi diretti.
Risulta comunque difficile pensare che le misure abbiano finalità di tutela dell’ambiente anche per la natura stessa della tassa che inizialmente puntava su un’imposta di 1€ al chilo, salvo poi approdare alla cifra di 0,50 € al chilo. Considerando che la plastica più comune costa 80 centesimi al chilo, si propone una tassa che costa più della metà della materia prima.
Chiaramente per alcuni settori ad alto impatto, il provvedimento può avere anche dei riscontri ma solo se esistono alternative convenienti. Molte aziende nel settore del packaging hanno optato per la carta o comunque derivati cellulosi ma degli studi LCA (Life-Cycle Assessment) dimostrano che questi materiali hanno un impatto ambientale maggiore rispetto al sacchetto di plastica comune. Credo che per arrivare ad un provvedimento efficace ci sia la necessità di unire i ruoli legislativi e di ricerca nei comitati; in particolar modo i dati scientifici andrebbero ascoltati di più per commisurare iniziative adeguate.
11. Cosa dovrebbe fare di più la politica nel cammino verso un sistema attento all’ambiente? È vero che questo comporterebbe un salasso economico difficilmente sostenibile?
A livello internazionale c’è molta più chiarezza di intenzioni su cosa andrebbe fatto ma in generale la politica dovrebbe concentrarsi su piani di investimento strutturali quindi impianti di gestione dei rifiuti perché sono troppo pochi rispetto alla popolazione e alla produzione dei materiali. Sarebbe necessario anche un allineamento europeo in merito per permettere la specializzazione in determinate gestioni unito allo sforzo per rendere le filiere produttive sempre più sostenibili.
Come ho già detto, il livello di sviluppo dei materiali ha raggiunto livelli altissimi, ora serve un investimento per il fine vita della plastica, manca l’apporto politico. Al problema della sostenibilità i ricercatori hanno dato un enorme contributo trovando nuovi materiali ma lo sforzo diventa vano se mancano impianti di gestione e politiche di supporto. In particolare le nuove plastiche costano di più in quanto bisogna coprire i costi di ricerca e quindi si inseriscono a fatica nel mercato, questo gap andrebbe accorciato anche attraverso uno sforzo economico non indifferente.
Per la sostenibilità ambientale si può incorrere in una sorta di insostenibilità economica ma senza un investimento concreto non si avrà un risultato, è questo il prezzo da pagare. La questione ambientale è un problema globale che esige soluzioni globali.
Intervista a cura di Arianna Bandiera e Sofia Bettari
(In copertina immagine di Brian Yurasits da Unsplash)
Per approfondire, il ciclo di articoli Dieci anni sostenibili, a cura di Alice Buselli