Può in un qualche modo l’arte rappresentare lo stato d’animo di tutti noi durante la quarantena? Lo scopriamo al fianco di Edward Hopper, uno dei più celebri esponenti del realismo americano del Novecento.
Sono ormai quattro settimane che siamo chiusi in casa. Alcuni di noi stanno passando questa quarantena in famiglia, altri con il proprio ragazzo o la propria ragazza, chi con amici o coinquilini e c’è anche chi la sta trascorrendo completamente da solo. In ognuno di questi casi, comunque, il comune denominatore è la malinconia.
Tutti noi stiamo vivendo le conseguenze della mancanza di socialità: cerchiamo di colmare un vuoto tenendoci costantemente impegnati, chi più e chi meno. Arriva sempre, però, quel momento della giornata in cui ci fermiamo, prendiamo fiato e ci ricordiamo della situazione attuale.
Veniamo travolti da una strana tristezza e, intanto, diventiamo le rappresentazioni viventi dei quadri di Edward Hopper (1882-1967), pittore del XX secolo che in questi giorni ha rivelato la sua continua attualità.
Le finestre di Edward Hopper
Non dipingo quello che vedo, ma quello che provo.
Edward Hopper
Da quando è iniziata questa reclusione forzata, passo molto tempo davanti alla finestra; non osservo niente di particolare, semplicemente lo trovo un modo per “affacciarsi alla realtà” e recuperare un senso di quotidianità. Hopper utilizza le finestre per orientare lo sguardo dell’osservatore: quando queste danno sull’esterno, rappresentano il distacco tra il personaggio e il mondo di fuori; quando sono rivolte verso l’interno, invece, descrivono lo stato psicologico dei soggetti raffigurati.
In Morning Sun (1952), ad esempio, il pittore mostra la moglie Jane seduta sul letto mentre, persa nei suoi pensieri, rivolge lo sguardo verso una finestra da cui entra la luce del sole. Il grande protagonista di quest’opera è indubbiamente il silenzio, quasi metafisico, che domina non solo la stanza, ma anche lo scorcio urbano che si intravede appena. Per sottolineare ancora di più l’alienazione di questa figura, Hopper colloca la camera – del tutto spoglia – in alto, lontano dalla strada, e dipinge l’edificio di fuori di rosso, un colore “forte” che però, in questo caso, non esprime alcun tipo di vivacità.
Una stanza a New York
In Room in New York (1923), invece, lo spettatore si trova catapultato in un ambiente domestico di una coppia che ha perso la propria intimità.
Lui sta leggendo un giornale, mentre lei sta premendo pigramente qualche tasto del pianoforte. Nessuno dei due parla, ognuno è chiuso nel proprio mondo interiore e nel proprio egoismo.
È particolare (e non banale) la scelta di Hopper di dipingere soggetti senza un volto ben definito: il suo intento non è quello di presentare una scena, ma di spingere l’osservatore a interrogarsi sul fenomeno, in modo tale da capire il vuoto e l’inconsistenza della realtà contemporanea. Senza volerlo, il nostro sguardo diventa voyeuristico e il nostro occhio indugia sui toni freddi della stanza e sulla porta chiusa messa in mezzo ai due protagonisti. Che sia un simbolo? Una metafora?
Il simbolismo femminile
Così tanto di ogni forma d’arte è espressione del subconscio.
Edward Hopper
Abbiamo visto che le scene che Hopper decide di portare avanti sono scorci di vita quotidiana. Diversamente dalle altre avanguardie artistiche del suo tempo (cubismo, astrattismo, surrealismo e pop art), l’arte hopperiana non prende nessun tipo di posizione, non vuole lanciare nessun messaggio sociale.
Hopper, del resto, non era di certo un idealista. Nei suoi quadri crea dei puzzle psicologici unendo la materia umana e materia architettonica. In particolare, il pittore si concentra molto sulla psicologia femminile: più volte dipinge donne nude in camere d’albergo (Hotel Room) o in appartamenti (Summer Interiore Evening Wind), oppure donne solitarie in uffici (New York Office) o in luoghi pubblici (New York Movie).
Questo interesse deriva sicuramente dalle letture di Freud e Jung; quest’ultimo, in particolare, era stato il primo ad occuparsi della specificità della psiche femminile. Jung mostra la donna come una realtà dominata dall’Eros, la capacità di “sentire e mettere in relazione” e Hopper, di conseguenza, utilizza la donna come una sorta “filtro” per mostrare i sentimenti umani.
L’eredità artistica di Edward Hopper
Tra gli anni ’20 e ’30 del Novecento, Hopper diventa uno dei pittori realisti più conosciuti d’America e i suoi quadri iniziano ad essere usati come manifesto del “declino del sogno americano”.
Ciò, ovviamente, non piace all’artista. Non è contento neanche di chi lo paragona a Norman Rockwell, Grant Wood e Thomas Hart Benton, pittori di “semplici scene americane”.
La verità è che l’eredità artistica di Hopper non la ritroveremo nell’arte ma nel cinema. La forza drammatica dei suoi quadri e la capacità di rappresentare i silenzi e gli animi umani saranno fonte di ispirazione per le più grandi personalità cinematografiche del Novecento e del nostro secolo.
Partendo da Alfred Hitchcock, che riprende la famosa casa di Psycho da House by the Railroad, passiamo attraverso Wim Wenders e Dario Argento, che riproducono il famoso quadro Nighthawks (I Nottambuli) in The End of Violence e Profondo Rosso, fino ad arrivare a David Lynch, che deve molte delle sue scene e delle sue inquadrature alle opere hopperiane.
Emerlinda Osma
(In copertina Edward Hopper, Nighthawks, 1942)