Cronaca

28 marzo 1997 – La tragedia di Otranto

Tragedia Otranto

Ad anni dalla tragedia di Otranto, il racconto del Kater i Rades, partito da Valona il pomeriggio del 28 marzo 1997 e affondato nei pressi del Canale di Otranto con 142 persone a bordo.


Di immigrati il Mediterraneo è sempre stato pieno; pochi quelli in regola. Intere famiglie in cerca di un futuro migliore, da una sponda all’altra, oggi come decenni fa. Molti arrivano ma alcuni si perdono per sempre tra le onde. Erano gli ultimi anni del XX secolo e l’Italia guardava con timore ad Est, verso l’Albania. Il piccolo paese si trovava coinvolto in una guerra civile, dopo essere uscito da 45 anni di dittatura comunista.

Si temeva allora che migliaia di clandestini albanesi si riversassero sulle coste italiane e in effetti così fu. Gli arrivi in massa iniziarono nel ‘91 ma l’episodio più tragico avvenne esattamente ventitré anni fa, il 28 marzo 1997. Una piccola imbarcazione, il “Kater i Rades” (in italiano “Quattro in Rada”), partì da Valona nel pomeriggio. Sul mezzo, progettato per appena una decina di persone, ne avevano trovato posto 142. Furono solo in 34 ad aprire gli occhi alla luce il mattino seguente; circa 27 i corpi dispersi.

Antefatto

Dopo la caduta del regime, come quasi sempre accade, il paese balcanico si trovò in una situazione tragica. Debolissimo economicamente, tanto da essere la nazione più povera del continente, politicamente disorientato e con una classe dirigente del tutto incompetente. La situazione precipitò quando, nei primi mesi del 1997, le poche imprese presenti caddero vittima di una truffa a schema piramidale che distrusse la già provata economia locale. Fu questa la goccia che fece traboccare il vaso, portando in piazza migliaia di persone a protestare violentemente.

La circolazione di armi di qualsiasi genere venne facilitata e questo gettò il paese in una vera e propria guerra civile. In questo clima di totale caos, con varie città (soprattutto al Sud) in mano a bande criminali, un’intera generazione si riversò al di là dei confini. Alcuni seguendo i sentieri di montagna dell’Epiro, diretti in Grecia, altri via mare, verso le vicine coste pugliesi. Per far fronte a tutto ciò e soprattutto per sorvegliare i propri confini marittimi, l’Italia dell’allora governo Prodi fu impiegata nella cosiddetta operazione “Bandiere Bianche”.  Un blocco navale con lo scopo di impedire l’accesso al paese alle imbarcazioni di fortuna albanesi.

La notte dell’incidente

Una volta partita dal porto di Valona, la motovedetta aveva proseguito senza problemi per più di un’ora. Una volta giunta sull’isola di Sazan, poco dopo le 17:00, il mezzo venne avvistato dalla fregata Zeffiro della marina militare, impiegata nel far rispettare il blocco. La nave italiana intimò agli scafisti di invertire la rotta. Il Kater i Rades disobbedì facendo capire di essere carica di donne e bambini. Pochi minuti dopo, un’altra nave sostituì la Zeffiro, inseguendo e monitorando i movimenti dell’imbarcazione clandestina. Più agile e veloce, la corvetta Sibilla continuò ad avvicinarsi cauta fino al momento del naufragio. Alle 18:45 l’obsoleto Kater i Rades venne colpito e rimase ribaltato per circa 8 minuti prima di affondare definitivamente nel canale di Otranto.

Spaventati e incapaci di nuotare, molti dei suoi passeggeri trovarono la morte e i pochi in grado di mantenersi in vita vennero successivamente soccorsi dalla Sibilla, di ritorno sul luogo dell’incidente 20 minuti dopo. Famiglie speranzose vennero distrutte definitivamente. Quei padri che ambivano ad un futuro migliore per i propri figli, si ritrovarono ad un tratto senza nessuno scopo per giungere in Italia. In un modo o nell’altro l’operazione “Bandiere Bianche” aveva avuto successo.

Pane e coraggio

E sì che l’Italia sembrava un sogno / steso per lungo ad asciugare, / sembrava una donna fin troppo bella / che stesse lì per farsi amare, / sembrava a tutti fin troppo bello / che stesse lì a farsi toccare.

Ivano Fossati, Pane e coraggio

Così cantava nel 2003, Ivano Fossati, forse ricordandosi lui stesso i volti dei disperati giunti in Italia pochi anni prima. Il paese aveva saputo accogliere bene, nonostante le difficoltà, quei profughi a cui per tanto tempo era stata negata la libertà. Il loro sogno distante una manciata di chilometri eppure così lontano. Quell’Italia così bella ed ospitale agli occhi di chi non aveva più nulla da perdere.

Nina ci vogliono scarpe buone/ e gambe belle Lucia. / Nina ci vogliono scarpe buone/ pane e fortuna e così sia / Ma soprattutto ci vuole coraggio / a trascinare le nostre suole / da una terra che ci odia / ad un’altra che non ci vuole.

Ivano Fossati, Pane e coraggio

Odiati dalla propria terra incapace ed inesperta, trascinando i piedi a nuoto verso quell’Italia che non li voleva. Si presentava così, ai porti di Brindisi o Bari, l’albanese medio di quegli anni. Per alcuni addirittura una “minaccia islamica”, ignorando il fatto che il loro era l’unico paese dove fosse mai entrato in vigore l’ateismo di stato. Per altri invece solo un poveraccio, un criminale da due soldi.

E noi cambiavamo molto in fretta / il nostro sogno in illusione / incoraggiati dalla bellezza / vista per televisione. / Disorientati dalla miseria /  da un po’ di televisione.

Ivano Fossati, Pane e coraggio

Eppure biascicavano qualche parola imparata guardando di nascosto RAI Uno e ascoltando le canzoni di Toto Cutugno, Al Bano e altri. Mostrava, quella TV in bianco e nero, un mondo nuovo, bello e pieno di speranza. Partivano inseguendo quell’illusione di un’Italia pronta ad accoglierli, nella speranza di poter cantare anche loro un giorno L’italiano. Il mattino dopo chi non poté però partire, chi non era riuscito a racimolare i soldi necessari, si riscopriva fortunato.

L’epilogo e il ricordo della tragedia di Otranto

Nel 2014, diversi anni dopo la tragedia, la Cassazione si è espressa sul disastro. Due anni di carcere per il comandante italiano, Fabrizio Laudadio, e tre per quello albanese, Namik Xhaferi. È stato dunque stabilito che le manovre dell’imbarcazione albanese furono pericolose e rappresentavano una minaccia per la marina italiana. Inizialmente gli ordini dei vertici della Marina militare erano stati messi in discussione, venendo archiviati in seguito. L’unico a pagare le conseguenze degli ordini è stato il comandante della Sibilla. I due comandanti venero entrambi condannati con l’accusa di naufragio e omicidio colposo.

Otranto
L’approdo. Opera all’Umanità Migrante.

Ha fatto molto discutere negli anni successivi, la posizione dei vertici militari e politici del paese. Quella che doveva essere una missione di sorveglianza dei confini nazionali, si è rivelata una tragedia di cui non si saprà mai tutto. D’altro canto, l’Albania non era in grado di difendere in modo appropriato i diritti dei propri cittadini e di indagare a fondo sulle vittime.

Fu solo con l’intervento della Corte europea dei diritti dell’uomo che l’Italia venne dichiarata colpevole e incaricata di svolgere le apposite indagini sui corpi rinvenuti. Ciò che rimane della Kater i Rades è un relitto arrugginito, reso monumento nel porto di Otranto. L’Approdo. Opera all’Umanità Migrante, questo il titolo della scultura ricavata dai resti della nave. Canzoni popolari e poesie sono state scritte sulla tragedia, mantenendo ancora forte il ricordo tra la popolazione su quanto accadeva 23 anni fa, sulle acque dell’Adriatico.

Jon Mucogllava

(In copertina una foto d’archivio della Kater i Rades, simbolo della tragedia di Otranto)

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