Lucrezio e Dante. Come si può pensare di mettere a confronto due poeti, ma soprattutto due uomini, tanto diversi, tanto lontani, tanto discordanti?
Pro Deo an contra deos?
Lucrezio e Dante. Il primo, l’evangelista di Epicuro, strenuo sostenitore del più nudo materialismo, portavoce delle teorie atomistiche, predicatore della solitudine condizione per raggiungere la saggezza, colui che aveva affermato senza ombra di dubbio che Dio – o gli dei siccome Lucrezio è immerso nella cultura pagana – ammesso che esistano, non hanno alcun interesse negli uomini; il secondo, l’autore della più grande opera letteraria della cristianità, l’ideatore della teoria dei due soli, soldato all’occorrenza per difendere la propria città e l’indipendenza della propria religione dall’autorità imperiale, l’uomo che disse di aver smarrito la retta via nel momento della sua vita in cui si sentì più lontano da Dio.
Il contrasto sembra inconciliabile: ateismo contro religiosità, materialismo contro spiritualismo, solitudine del saggio contro impegno politico. Tuttavia esiste sempre un punto di contatto, anche nei contrasti più accaniti. E il punto di contatto si trova nel Canto XI del Paradiso, precisamente nei primi dodici versi, che costituiscono una sorta di proemio al canto. In queste quattro terzine Dante sembra Lucrezio.
Sia chiaro, i due non si conoscevano: ovviamente Lucrezio non può aver letto Dante, ma nemmeno il fiorentino ha mai letto l’epicureo, dato che il De rerum natura è stato rinvenuto soltanto nel 1417, quando Poggio Bracciolini, uno dei più insigni filologi umanisti, scoprì questo scritto in un monastero tedesco.
L’insensato affanno per il potere materiale
L’incredibile legame tra questi dodici versi e il poema lucreziano è chiaramente riscontrabile studiando l’incipit (versi 1-61) del II libro del De rerum Natura, dedicato alla teoria del clinamen.
Dante scrive «O insensata cura de’ mortali / quanto son difettivi silogismi / quei che ti fanno in basso batter l’ali! / Chi dietro a iura e chi ad amforismi / sen giva, e chi seguendo sacerdozio, / e chi regnar per forza o per sofismi / e chi rubare e chi civil negozio, / chi nel diletto de la carne involto/ s’affaticava e chi si dava a l’ozio». Potente la critica ai silogismi (termine che richiama la scolastica, aspramente criticata da Dante) che si concentrano sulle cose materiali “quei che ti fanno in basso batter l’ali”.
Nei versi successivi Dante si dilunga nell’elencare tali silogismi: c’è chi studia legge (iura) e medicina (Amforismi era il titolo dell’opera di Ippocrate), chi prende i voti (seguendo sacerdozio) per avere autorità (regnar), con la forza o con l’inganno (sofismi) o per rubare o per gettarsi in politica (civil negozio), c’è anche chi tradisce i voti per i piaceri della carne (nel diletto della carne involto). Tutte queste azioni comportano affanno (s’affatica) per chi le compie, mentre gli altri si lasciano andare all’ozio.
Suave… alterius spectare laborem
Tuttavia circa mille e trecento anni prima Lucrezio aveva scritto «Sed nil dulcius est, bene quam munita tenere/ edita doctrina sapientium templa serena,/ despicere unde queas alios passimque videre/ errare atque viam palantis quaerere vitae/ certare ingenio, contendere nobilitate/ noctes atque dies niti praestante labore/ ad summas emergere opes rerumque potiri./ O miseras hominum mentis, o pectora caeca!»: il poeta sostiene che nulla è più dolce che, una volta saliti sui templi sereni della dottrina dei saggi, guardare verso il basso chi si affanna vagando in cerca della strada giusta, chi lotta per affermare il proprio ingegno o grado sociale, chi lavora; e tutto questo per ottenere ricchezza e potere.
Il risultato del confronto è strabiliante: non solo i due affermano lo stesso principio, ovvero la vacuità della lotta per la ricchezza e il potere, ma utilizzano la stessa area semantica, quella della fatica (cfr. “s’affatica” e “labore”), e tutto questo senza aver alcun influsso l’uno dall’altro.
Il sapiens e la completezza dell’animo
Per completare il quadro delle somiglianze è necessario analizzare l’ultima delle quattro terzine: «quando, da tutte queste cose sciolto, / con Beatrice m’era suso in cielo / cotanto glorȉosamente accolto». L’immagine di Dante assiso in cielo con Beatrice a guardare libero (sciolto) il mondo di sotto è esattamente la stessa utilizzata da Lucrezio: il saggio che dall’alto despicet il mondo e si compiace di essere distante dalle sue sofferenze, dalle sue guerre, dai suoi affanni, poiché vive in una dimensione più alta (i templa serena per Lucrezio e il cielo per Dante) e irraggiungibile dagli altri uomini.
Per concludere questo testo vorrei spiegare il titolo e rispondere alla domanda iniziale. A questo fine dobbiamo fare un salto in avanti nel tempo e arrivare al 4 luglio 1776, data della pubblicazione della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America: uno degli articoli più famosi e rivoluzionari afferma che “Ognuno ha il diritto di ricercare la felicità”. Lucrezio e Dante non fanno nient’altro che questo. Fine dichiarato dell’epicureismo è raggiungere l’atarassia; fine dichiarato del cristianesimo è raggiungere la salvezza: per ottenere quello che cercano, Lucrezio e Dante percorrono strade diverse, quella dell’uno fatta di meditazione, di bisogni necessari, di solitudine, quella dell’altro di preghiera e fede.
La realtà, tuttavia, è che non c’è differenza, perché atarassia e salvezza sono fini, è vero, ma soprattutto mezzi che garantiscono la felicità. Così, mentre noi ci affanniamo per realizzarci, uguagliando la felicità al successo e alla ricchezza, loro, sapientes et beati, guardano dall’alto della Storia alterius laborem mari magno turbantibus aequora ventis.
Tommaso Malpensa