Tutti conosciamo Albert Einstein per la sua memorabile Teoria della Relatività che rivoluzionò completamente i concetti di spazio e tempo. Pochi sanno però, che il Premio Nobel fu conferito ad Einstein nel 1922 “per i suoi servizi alla fisica teorica, e specialmente per la sua scoperta dell’effetto fotoelettrico“. Nella motivazione è immediato il riferimento al suo lavoro “Un punto di vista euristico relativo alla generazione e alla trasformazione della luce” , pubblicato nel 1905. Il richiamo alla Relatività è molto meno evidente, se non del tutto assente.
Un po’ di storia
Albert nacque a Ulm, in Germania, il 14 marzo del 1879 da una famiglia di origine ebraica. Dopo un’infanzia trascorsa tra Monaco di Baviera e Pavia, si trasferì in Svizzera e si laureò in fisica al Politecnico di Zurigo nel 1900. Due anni dopo ottenne un impiego all’Ufficio Brevetti di Berna, e avendo molto tempo a disposizione, iniziò a dedicarsi ai suoi lavori. Il 1905 fu per lui l’annus mirabilis, in cui, nel giro di pochi mesi, produsse ben sei articoli pubblicati sugli Annalen der Physik. Grazie al lavoro sul moto browniano corroborò la teoria atomica della materia; con l’effetto fotoelettrico introdusse il concetto di quanto di luce. Infine abbiamo i due articoli sulla Relatività ristretta, che sono tra i più noti di tutta la letteratura scientifica.
Negli anni seguenti Einstein continuò la sua ricerca e nel 1915, grazie ad una serie di conferenze tenute presso l’Accademia Prussiana Delle Scienze, divulga al mondo la Teoria della Relatività generale. L’articolo pubblicato successivamente, giunse nelle mani del celebre astronomo britannico Sir Arthur Eddington che ne rimase letteralmente estasiato. Nel maggio del 1919 lo stesso Eddington organizzò una spedizione in occasione di una rara eclissi totale di sole. Venne misurato l’angolo di deflessione della luce prodotta da stelle lontane. A causa del campo gravitazionale del sole infatti, come prevedeva la teoria, la luce seguiva una traiettoria non rettilinea bensì curva. Quindi, se in un primo momento tutta la comunità scientifica aveva opposto resistenza alle idee non convenzionali ed innovative di Albert, ora, dopo l’evidente trionfo della sua teoria, il premio Nobel era alle porte.
Il Nobel del 1922
L’assegnazione del Nobel ad Einstein fu una vicenda lunga e travagliata. Grazie ai suoi noti risultati scientifici, il suo nome compariva già dal 1910 nella lista dei possibili candidati. Nella commissione incaricata di conferire il premio vi era però una forte componente di scienziati piuttosto restii ad accettare le idee di Albert. Inoltre le sue origini ebree certamente non giocavano a suo vantaggio perché, già nei primi anni del Novecento, l’antisemitismo era particolarmente diffuso in Europa. La situazione divenne ancora più delicata quando, nel 1920, venne fondato il Partito Nazionalsocialista Tedesco.
A titolo di esempio è opportuno citare il tedesco, Philipp Von Lenard, già vincitore del Nobel nel 1905 “per le sue ricerche nel capo dei raggi catodici”. Egli aderì ben presto al partito di Hitler e nell’arco di tutta la sua vita si oppose fervidamente all’attività scientifica di Einstein, giudicata fallace ed ingannevole. Grazie al potere ottenuto in Germania, riuscì per molto tempo ad influenzare le decisioni del comitato del premio. Dopo il 1920, però, le evidenze sperimentali ottenute da Eddington dimostrarono l’inoppugnabile validità della Relatività Generale e impedirono a chiunque altro di contrastare le teorie di Einstein.
Alla tradizionale cerimonia di assegnazione (che ancora oggi si tiene il 10 dicembre di ogni anno, in occasione dell’anniversario della morte di Alfred Nobel), Albert non fu presente perché già in viaggio verso il Giappone. In una lettera inviata in questo periodo al collega Niels Bohr, emerge come lo scienziato non fosse particolarmente interessato a tale riconoscimento.
L’effetto fotoelettrico
Già scoperto nel 1887 da Heinrich Rudolp Hertz, l’effetto fotoelettrico consiste nell’emissione di una corrente elettrica da parte di un metallo opportunamente colpito da luce (o, più in generale, da radiazione elettromagnetica ad una certa frequenza). La teoria ondulatoria della luce però non è in grado di spiegare le seguenti tre caratteristiche di tale fenomeno:
- la corrente si produce solo se la radiazione è dotata di una frequenza superiore ad un certo valore costante “f”, proprio di ogni materiale;
- l’intensità della corrente dipende dall’intensità della luce e non dalla sua energia;
- l’energia associata agli elettroni tende ad aumentare al crescere della frequenza.
A questo punto il ragionamento di Einstein prevede che gli elettroni costituiscano una sorta di gas uniforme che riempie il metallo. Fondamentalmente, si immagina che gli elettroni possano liberamente spostarsi all’interno del materiale considerato, come se fossero delle molecole di un gas all’interno di una scatola. Questa è una tipica caratteristica delle sostanze conduttrici, in cui i legami tra elettroni più esterni e nuclei sono deboli.
Si definisce ora l’energia minima necessaria affinché tali elettroni possano trasformarsi in una corrente. Tale energia è data dal prodotto della frequenza f, citata prima, per la costante di Plank. La radiazione che colpisce il metallo è anch’essa caratterizzata da una quantità discreta di energia (sempre pari al prodotto della frequenza, diversa dalla precedente, per la solita costante di Plank). Prima d’ora si pensava che la radiazione elettromagnetica potesse scambiare energia con la materia come se fosse una sorta di flusso continuo. Con Einstein invece si arriva alla formulazione del concetto di quantizzazione dell’energia, secondo cui la trasmissione di energia avviene “per piccoli salti”. Se assumiamo che l’energia contenuta in un fascio di luce sia una grande vasca piena d’acqua, si può immaginare il trasferimento di energia come una serie di bicchieri uguali tra loro che, dopo essere stati riempiti, versano il loro contenuto in un altro recipiente.
Di conseguenza, se l’energia associata alla radiazione incidente sul metallo è superiore al valore del lavoro per l’estrazione degli elettroni, si ottiene una corrente. Se è minore non è possibile osservare nessun effetto. Inoltre, l’intensità della corrente, che di fatto ci indica il numero di elettroni che si stanno spostando, dipende necessariamente dall’intensità della luce, cioè dal numero di quanti di energia presenti. Infine l’energia totale, correlata agli elettroni emessi, aumenta all’aumentare della frequenza incidente.
Il dualismo onda-particella
Secondo Isaac Newton, fondatore della teoria classica della gravitazione universale, la luce era costituita da corpuscoli dotati di massa molto piccola, soggetti dunque alle normali leggi della meccanica. Questo modello però destò sin da subito perplessità perché non riusciva a spiegare i fenomeni di rifrazione, diffrazione e interferenza, osservati in alcuni esperimenti che coinvolgevano la luce. Christiaan Huygens, intorno al 1850, propose la teoria ondulatoria della luce che era del tutto consistente con i fenomeni sopra elencati. Solo con Einstein e l’effetto fotoelettrico si arrivò ad una soluzione definitiva del problema.
La nuova teoria nasceva dalla geniale intuizione di superare le due precedenti, unendone le caratteristiche. Nasceva così il concetto di duplice natura della luce. Da una parte la natura ondulatoria spiega fenomeni fisici che coinvolgono la radiazione a livello macroscopico; dall’altra, scendendo nel microscopico, si potrebbe pensare a piccole unità energetiche fondamentali e quantizzate (come se fossero dei pacchetti di energia discreti) che da ora in avanti chiameremo fotoni. La luce, dunque, e più in generale la radiazione elettromagnetica, è sia onda che corpuscolo.
Nel caso dell’effetto fotoelettrico quindi ogni fotone, caratterizzato da un valore preciso di energia, è in grado di eccitare un solo elettrone. Più la radiazione è intensa, più il numero di fotoni è elevato e più elettroni si possono liberare per dare un contributo alla corrente elettrica ottenuta.
Le applicazioni pratiche
L’effetto fotoelettrico è alla base di numerosissimi dispositivi di uso comune o industriale. Primo fra tutti, è la fotocellula, caratterizzata da una luce continua che colpisce costantemente un circuito in cui si genera corrente elettrica. Quando qualcosa copre la luce, la corrente si interrompe improvvisamente e viene dunque rivelata la presenza di un ostacolo. Le fotocellule si usano nella vita di tutti i giorni in porte e cancelli ad apertura automatica e in numerosissimi dispositivi di sicurezza, come i rivelatori anti-incendio.
In secondo luogo c’è la cella fotovoltaica, comunemente usata nei moderni pannelli solari, fondamentali per generare energia rinnovabile. Molto comuni sono, infine, i fotomoltiplicatori, dei particolari dispositivi utilizzati nella ricerca scientifica per la rivelazione di particelle. Esiste poi una serie di sensori e rivelatori particolari (fotodiodi al silicio, CCD e fotoresistenze) di larghissimo uso nella misura di segnali ottici digitali (lettori CD e DVD, fibre ottiche, videocamere e strumenti fotografici).
Tutto ciò dimostra come anche i risultati scientifici che sono apparentemente lontani dalla vita di tutti i giorni, in realtà sono alla base di numerose applicazioni pratiche in grado di promuovere il progresso tecnologico. Il più grande prodigio della scienza è infatti quello di produrre delle conoscenze che, in un modo o nell’altro, presto o tardi, consentiranno di migliorare la vita di tutti.
Diego Bottoni
Per approfondire:
- Effetto fotoelettrico
- Effetto fotoelettrico – La spiegazione di Einstein
- Sul premio Nobel ad Einstein, a cura di Decio Cocolicchio (Scienze e Ricerche)