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Father of all Motherfuckers – Non si giudica un album dalla copertina

Father of all motherfuckers

Il primo febbraio 1994 usciva Dookie, terzo album dei Green day, una giovane band di Oakland, California. Sulla copertina ricordiamo il loro nome scritto in grassetto, in mezzo alla nube di una bomba atomica. Nessuna grafica avrebbe potuto essere più azzeccata: questo disco infatti ha rappresentato l’esplosione del loro successo. Il 7 febbraio 2020, 26 anni dopo, è uscito il loro tredicesimo album, Father of all Motherfuckers, attesissimo e già molto ascoltato. Questo nuovo progetto però ha lasciato fin da subito nei fan storici un grande interrogativo: Chi sono, adesso, i Green day?

In televisione, tra un Sanremo e l’altro, ci appare lui: Billie Joe, il frontman della band. Lo sguardo è rimasto quello da ragazzino ribelle di 20 anni fa, questa volta però in un corpo da adulto, che va per i 50. “Ambasciatore del rock”, si legge alla fine dello spot, testimonial di Virgin radio. Sembra circondato da un’aura di rispetto ed epicità che abbiamo sempre visto intorno ai grandi.

I Green Day sono cresciuti. Non sono più i ragazzi che ci raccontavano la periferia attraverso American Idiot: smetteranno, forse, di lanciarsi sul pubblico durante i concerti; probabilmente Billie Joe non suonerà più nudo, vestito solo dalla sua chitarra, che si spera, non verrà più spaccata sul palco. Restano invariati i membri storici: Billie Joe Armstrong, Mike Dirnt e Trè cool, e rimane la speranza che la loro musica continui a sorprendere e far sognare intere generazioni.

Un disco che ha diviso i fan

Due cose hanno lasciato subito spiazzati i seguaci storici del gruppo: la durata del disco e la grafica in copertina. Nonostante il genere non richieda brani sperimentali infiniti alla Pink Floyd, è chiaro che un album di soli 26 minuti stoni in mezzo agli standard del gruppo. In effetti, di fronte ai 58 minuti del colosso che è stato American Idiot, questo ultimo disco sembra più un EP.

Bisogna però tenere conto di alcuni fattori: prima comprare un disco era un evento che portava con sé un certo tipo di sacralità, adesso gli amanti della copia materiale sono sempre meno. Ormai abbiamo tutto pronto su Spotify, e gli album sembrano più raccolte di singoli da ascoltare separati. Quasi nessuno si prende più un’ora di tempo per sedersi in salotto e ascoltare veramente un disco, tanto vale; allora; dare al pubblico solo ciò che è in grado di ascoltare.

La copertina lascia ancora più perplessi: la mano di American Idiot sul retro, il logo del gruppo uguale a quello del disco precedente (di solito veniva cambiato in ogni album), un unicorno a censurare la scritta Motherfuckers, sembrano elementi messi a caso con Paint. Non c’è da stupirsi che molti fan siano rimasti spiacevolmente sorpresi.

È un periodo di transito per il gruppo che mesi fa ha annunciato la separazione dalla Warner Brothers: una decisione di sicuro drastica e sofferta, visti i lunghi anni di collaborazione. Potrebbe essere questa la causa di un lavoro dalle caratteristiche così insolite? I fan restano divisi: chi crede che sia una presa in giro della band, per dare il “contentino” alla casa discografica, e gli altri, i più saggi a mio avviso, che credono in motivazioni più profonde e preferiscono ascoltarlo, prima di fare polemica.

Un pop punk disciplinato

Chitarra distorta, un riff di quattro accordi stoppati (alla Jesus of Suburbia) e una voce radio quasi fuori campo: si apre così il disco, con la canzone Father of all… da cui prende il nome e anche la direzione musicale. È quasi tornato il punk rock degli inizi, ma stavolta con più disciplina. Il tutto è sorretto dal groove del batterista tre cool che ci dimostra ancora una volta quanto lasciare spazio alla ritmica, in brani di indole “casinista”, possa donare identità, rigore ma soprattutto dinamica al pezzo. Non è mai stato facile identificare il genere del gruppo e di certo questo disco non chiarisce le idee. Se i primi pezzi sembrano assomigliarsi, negli altri troviamo particolarità inaspettate.

Il brano Stabin your heart , con accordi blues e cassa ribattuta, ci porta indietro ad un rock n roll anni 50. Con Junkies on a high la sensazione è quella di ritrovarsi nella Boulevard of broken dreams: la canzone ha un riff semplice, che si appoggia sopra un tappetto di strumenti amalgamati, sonorità moderne che strizzano l’occhio ad un Indie rock da Artick Monkeys. L’album si chiude con il brano Graffitia, che sembra una storia raccontata a gran voce. Di base resta il loro sound classico ma con uno stile più pop.

In questo brano si creano diverse atmosfere, grazie all’incastro delle seconde voci, all’utilizzo della tastiera e al tappeto di basso, lasciato come protagonista. In sintesi si può affermare che la sperimentazione sia la protagonista di questo breve album: giochi con effetti sulla voce, sottofondi particolari, strutture inusuali; altro che Someone kills the DJ. Qui di certo non c’è scetticismo nei confronti dell’unione di più generi, anzi, ne vengono sfruttate le potenzialità.

In un mondo di dipendenze

Prendendo in considerazione solo i primi ascolti, questo non da l’idea di essere un disco impegnato. Non sono presenti ballad, la voce è quasi sempre messa in secondo piano rispetto agli strumenti e la maggior parte delle frasi sono oscure. La stessa band che per anni ha combattuto e criticato il governo di Bush, questa volta lascia da parte la politica: nessun attacco diretto a Trump, nonostante avessero manifestato più volte il proprio dissenso nei suoi confronti. I nuovi testi sono meno “arrabbiati” e più riflessivi, uniti da un concetto di base: le dipendenze.

Innanzitutto, la canzone che da il nome al disco, uscita come singolo qualche mese prima, parla di denaro. Denuncia il fatto di esserne schiavi, di averne un bisogno quasi ossessivo, e allo stesso tempo, di averne paura.

Huh-uh, come on, honey
Huh-uh, count your money
Huh-uh, what’s so funny?
There’s a riot living inside of us.

Una rivolta che vive dentro di noi

Una paura che rende statici e la canzone suona come un invito a ribellarsi. C’è una rivolta che vive dentro di noi e dobbiamo assecondarla. Noi siamo i nostri peggiori rivali faremo uscire il nostro lato migliore, quello più vero.

Nel brano Oh Yeah!, invece, si parla della dipendenza dalla tecnologia, tra Social network e bisogno di apparire. Il video, diretto da Malia James e uscito il 16 gennaio, ne è una perfetta rappresentazione: si apre con un ragazzo al volante distratto da un tutorial youtube in cui Trè cool mostra come suonare la batteria del pezzo.

Father of all Motherfuckers

Questa disattenzione porta il ragazzo ad urtare Billie Joe in un parcheggio. La scena, filmata da un passante, diventa virale su youtube e a sua volta distrae Mike Dirnt mentre sta svolgendo il lavoro di custode notturno. Il video continua con un inception di telefonini, che finisce col rendere indistinguibile ciò che è reale da ciò che non lo è. Le due tematiche raffigurate sono la celebrità, infatti nel momento in cui il cantante viene investito la preoccupazione principale è quella di filmarlo piuttosto che soccorrerlo; e la completa alienazione dalla realtà a cui ci ha portato la tecnologia.

Il brano Junkies on a High, come si può dedurre dal titolo, tocca dipendenze più delicate, più pericolose, argomenti sofferti, visti i trascorsi della band. Giusto poco tempo fa, ad esempio, il cantante ha raccontato della sua ricaduta nel periodo degli album: Uno! Dos! Très!, dei quali ammette di ricordare poco a causa degli psicofarmaci. Con la frase Rock ‘n’ roll tragedy, I think the next one could be me, il pezzo fa un chiaro riferimento alle molteplici vittime che alcool, droga e abuso di farmaci, hanno causato nel mondo della musica, e l’ultima parte si commenta da sola.

Un disco(rso) lasciato a metà

Father of all Motherfuckers è un disco insolito. Da una parte la band, che con i bicordi è riuscita a fare la storia, ci dimostra di non essere cristallizzata nel sound dei grandi successi, ma di poterci ancora donare qualche brivido inaspettato. Dall’altra troviamo dei Green day fragili, meno “arrabbiati” del solito, che comunque vogliono, e riescono a far parlare di loro. I Testi per lo più cupi ed introspettivi; suonano infelici per una band che, consapevole ormai di essere entrata nella rock ‘n’ roll hall of fame, dovrebbe godersi le fatiche passate con un’impresa celebrativa.

Questo disco lascia dietro di sé un silenzio d’attesa, sembra un discorso lasciato a metà, che dura da 26 anni e non può concludersi in 26 minuti. Adesso che, come con un ticchettio del bicchiere, hanno richiamato l’attenzione, a noi tutti non resta che aspettare, fiduciosi, il loro brindisi di congedo.

Maddalena Ansaloni

(In copertina la cover dell’album Father of all Motherfuckers dei Green Day)


Ascolta Junkies On A High, brano tratto da Father of all motherfuckers, dei Green Day


Per approfondire, le altre recensioni di musica di Maddalena Ansaloni.

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