Certe volte anche una normale giornata in spiaggia può portare una storia. E, in questo caso, il racconto del lungo viaggio di una ragazza e del bambino nel suo grembo dal Senegal alle coste dell’Italia.
Ho sempre trovato struggente, in inverno, camminare per la strada e trovarmi faccia a faccia con i cumuli di coperte e vestiti smunti che tentano di riparare dal freddo un senzatetto in cerca di sonno. In genere, quando esco di casa in quei giorni, mi lamento sempre della temperatura; io che, sotto giacca, felpone e maglietta, ho anche una canottiera di lana e – soprattutto – la consapevolezza che di lì a pochi minuti potrò di nuovo abbracciare un termosifone.
Mi capita di provare la stessa sensazione anche sulla spiaggia, in pieno luglio.
Sotto un cielo di fuoco
Sono sdraiata sotto l’ombrellone con quaranta gradi all’ombra, meditando se mi resti abbastanza forza fisica e di volontà per alzarmi dal lettino e andare a rinfrescarmi in acqua.
A pochi metri da me una catena irregolare di venditori ambulanti scorre, avanti e indietro, da un capo all’altro del lido, bersagliata senza interruzione dai cocenti raggi del sole.
Non ho idea di come facciano, mi ripeto ogni volta.
Da tutta la mattina una ragazza dalla carnagione scura, vestita con un grande pareo a motivi africani, cerca di vendere le solite cianfrusaglie da mare: braccialetti, collanine, occhiali da sole. All’improvviso – era inevitabile che prima o poi succedesse – si sente male, si ferma e inizia a tremare.
La cosa più naturale che le viene da fare è cercare aiuto tra chi le sta intorno, anche se non ha ancora imparato bene l’italiano e nessuno fino a quel momento si è preoccupato molto della sua condizione. “Incinta, incinta”, biascica, attirando l’attenzione di due signori sdraiati sui rispettivi teli.
Vedendola in quello stato, i due la fanno sedere all’ombra e le prendono da mangiare e da bere per far sì che si riprenda dal colpo di sole.
…e molti dolori patì in cuore sul mare
La storia della ragazza è quella che condividono migliaia di migranti. Ha lasciato il Senegal mesi prima perché là era praticamente impossibile trovare da vivere per lei e per il figlio che a breve sarebbe nato. Forse per la difficoltà a esprimersi in una lingua quasi completamente sconosciuta, forse per il disagio interiore che il solo ricordo le provoca, tutto quello che riesce a dire del mese trascorso sulla costa libica, in attesa di imbarcarsi, è che là erano tutti “cattivi cattivi cattivi”.
La traversata in mare poi era stata catastrofica: molte persone erano morte in balìa delle onde e a causa di una barca troppo poco riparata. La febbre alta e il bambino in grembo l’hanno salvata all’arrivo in Italia. Le autorità, infatti, hanno impedito lo sbarco dei passeggeri della loro nave (come in questo caso) e li hanno rimandati indietro, ma la sua situazione era così critica – unica eccezione – che è stata portata all’istante in ospedale.
Da tre mesi ha trovato rifugio presso la casa di un amico in Puglia, in attesa di un lavoro che, insieme al matrimonio con un italiano, è l’unica via che ha per ottenere un documento.
“Secondo te chi è quella ragazza seduta con i tuoi sotto l’ombrellone?”, chiedo incuriosita al mio amico. “Non lo so, ma sembra gentile”. Decidiamo che, per quanto il mare sia stupendo (lo è sempre l’ultimo giorno di vacanza), è ora di uscire dall’acqua e tornare a riva.
Quando arriviamo all’ombrellone, fatta una veloce presentazione e dopo aver regalato a tutti e quattro un braccialetto in segno di riconoscenza, la ragazza che avevo osservato da lontano saluta, ringrazia e se ne va. E io, che mentre lei raccontava ero rimasta a mollo senza pensieri, stavo per conoscere la sua storia.
Nei panni di chi ci sta intorno
Come dev’essere avere vent’anni, aver visto la morte in faccia e doversi prendere cura di una vita in potenza che pure ha diritto a un’esistenza normale? Il tutto senza un supporto familiare, senza soldi e senza nemmeno poter porgere un documento, un nome e una storia a chi lo chiedesse. Del resto, è solo un’immigrata, no? Una che ruba il lavoro agli italiani e infastidisce le loro catalessi estive per cercare di vendere quante più paccottiglie possibili.
La storia la fanno gli eroi, i criminali, chi subisce torti e chi resta fermo a guardarli. E commettere un crimine significa perdere quel senso di umanità ed empatia che distingue gli esseri umani dalle bestie.
Pensiamoci un attimo prima di decidere a quale categoria vogliamo appartenere, prima di inneggiare a porti chiusi e decreti sicurezza. Non si tratta di difendere i confini, si tratta di condannare la vita di persone che potrebbero essere nostri fratelli o nostri figli a una disperata sopravvivenza.
Arianna Bandiera
(In copertina Aude-Andre Saturnio da Unsplash)