Nel secondo articolo di Parlare in italiano approfondiamo il tema della pronuncia della nostra lingua. Influssi derivanti da regionalismi e tendenze legate al sentito dire portano i parlanti a distorcere la pronuncia di molte parole adottando quella che arbitrariamente sembra più corretta oppure ancora lasciandosi trascinare da cadenze fin troppo marcate senza averne la minima consapevolezza.
Regole di buona pronuncia
Il modello di riferimento per il parlato è dato dallo standard tosco-romano ma questo si frammenta su tutto il territorio nazionale dando vita a pronunce areali che rendono i diversi italiani marcati diatopicamente (cioè a seconda della zona geografica in cui si parlano). Di questo se ne renderebbe conto chiunque sentendo il differente parlare di un romano o un milanese o un palermitano: spesso si omette la sillaba finale delle parole e c’è chi non articola correttamente le lettere.
Una tendenza contemporanea e assai diffusa è quella di stravolgere il modello di riferimento utilizzando varietà locali prevalentemente settentrionali in cui sono preminenti le vocali aperte (“vòce”, “dòpo”, “favolòso”). Ciò avviene perché esse vengono viziosamente percepite dai parlanti come più eleganti e più moderne, quindi corrette. A ciò contribuiscono molto le reti televisive che si servono di conduttori e giornalisti provenienti, per lo più, dalle aree settentrionali.
A porre rimedio alle umane e inevitabili distorsioni della lingua intervengono l’ortoepia che studia la pronuncia e la dizione che cura nello specifico la corretta articolazione (e quindi pronuncia) delle lettere annessa all’eliminazione della cadenza.
Le vocali in italiano
In ogni regione, da quella più a nord a quella più a sud, si tende ad aprire vocali che secondo la regola sono chiuse e a chiudere quelle che andrebbero aperte. Parlare secondo una dizione perfetta è quasi impossibile ma si può fugare qualche dubbio e mascherare delle cadenze alle volte tanto o troppo marcate.
Utile nell’indirizzarci verso un parlato più consapevole è il dizionario che segnala, attraverso dei simboli specifici (IPA International Phonetic Alphabet), i suoni prodotti durante la pronuncia delle diverse lettere. Ad esempio la lingua italiana, secondo il modello tosco-romano, non conta, come comunemente si crede, 5 vocali ma 7: <a>, <i>, <u>, una <e> aperta (“è” come “chièsa”), una <e> chiusa (“é” come “spécchio”), una <o> aperta (“ò” come “cuòre”) e una <o> chiusa (“ó” come “incóntro”).
Inoltre, anche per alcune consonanti si ha una duplice pronuncia come la <s> che in “aṣma” e “ansia” si pronuncia diversamente, e lo stesso vale per la <z> che vediamo cambiare in “ẓerbino” e “azione”. Se pur si tratta di due lettere, ciascuna presenta una duplice pronuncia e per ognuna esiste un simbolo che la rappresenta.
Il dizionario in questi casi si rivela molto utile nel fugare dubbi e togliere curiosità e per esempio mostrerà che la <e> si pronuncia aperta quando viene rappresentata con [ε] e chiusa quando si trova [e]; la <o> aperta sarà segnalata con [ɔ] e la <o> chiusa con [o].
Qualche esempio pratico
Gli esempi base:
Al di là della dizione, vi sono poi parole che pronunciamo accentandole inconsapevolmente nella sede sbagliata:
Sara Carenza
Parlare in italiano è una rubrica originale di Sara Carenza.
Per approfondire: