È ancora buio quando ci troviamo in sala. Tra una cosa e l’altra ci sono volute due macchine per far stare tutto. I ragazzi portano gli amplificatori per le scale, io li seguo con un’asta e qualche cavo perché tutto il resto dell’attrezzatura pesa più di me. Dopo aver caricato il necessario, ci stringiamo in un abbraccio di gruppo: è oggi il giorno, si parte.
Cinque mesi prima era arrivata una mail in cui il nostro nome compariva sotto il titolo di “finalisti regionali”. Io e il tastierista, che allora frequentavamo ancora il liceo, ci siamo messi a saltare per l’aula dalla gioia, mentre il professore, incredulo, chiedeva cosa fosse successo. Siamo giovani e immaturi, ci vantiamo ancora dei nostri successi e va bene così. Non consideriamo neanche la parola “regionali”, l’occhio e il sorriso si fermano sempre a “finalisti” che è già un traguardo eccezionale: non vuol dire che ce la faremo, ma che ne abbiamo i requisiti.
Arezzo wave è un contest per gruppi musicali che si svolge nell’omonima cittadina ogni anno dal 1987. le selezioni primarie avvengono nelle regioni di appartenenza dei gruppi, mentre la finale si svolge in Toscana. La competizione, che in passato ha fatto emergere grandi nomi (i Negramaro per citarne uno), è un’opportunità indescrivibile per un gruppo come il nostro. In macchina intanto si ride e si canta, mentre dal finestrino finiscono le montagne e inizia la pianura, il cielo fuori è curvo all’orizzonte e lo sarà fino ai morbidi colli toscani; stasera non si gioca in casa.
Il giorno delle prove
Suono con gli Atop the hill da un anno. Prima andavo a sentirli ai concerti, e ballavo con i miei amici sotto al palco. Adesso sopra quel palco ci sono io, e il pubblico lo vedo ballare da qui. Un po’ alla volta ho imparato a memoria gli accordi, i testi, ho sentito mie anche le canzoni che non avevo aiutato a comporre, per poi provare la sensazione di vederne nascere di nuove con me. Adesso mi sento totalmente parte del gruppo, che scherzando chiamiamo “famiglia”, ma il sorriso che ho se ci penso non è lo stesso di quando si ride.
Ci aspettiamo un palco gigante, con chi sa quanto pubblico e di che tipo: produttori, giornali, grandi musicisti… ma l’entusiasmo di mesi si spezza già al soundcheck. Il palco è piccolo. È un teatrino molto carino nel pieno centro di Arezzo; ma è piccolo. Ci basta poco per capire che non ci sarebbe stata tutta la gente che ci aspettavamo. Mi giro in cerca di una scintilla di entusiasmo negli occhi dei miei compagni, gli stessi che brillavano dalla mattina, ma il loro sguardo è basso. Ho paura, non voglio che sia un colpo troppo forte, che qualcuno di noi pensi che sia stato uno spreco di tempo e che passi la voglia di provarci ancora e ancora…a quale scopo?
Cerco di nuovo il sorriso di cui ho bisogno e questa volta lo trovo, nel cantante. Pian piano contagia anche noi e ci dà la forza di salire sul palco. Proviamo i suoni e, nonostante la pessima acustica del luogo, alto e stretto, siamo soddisfatti. Un’ora dopo si va in scena. Durante il secondo pezzo salta la corrente e siamo costretti a ricominciare. Sotto al palco non c’è nessuno, in sala sì e no 10 persone. Sono schiaffi forti, ma non sufficienti a tirarci giù di morale. Il giorno dopo avremmo suonato per gareggiare, e dovevamo comunque tirare fuori il meglio di noi, fossimo anche stati da soli con i giudici.
La sera l’atmosfera è bella, siamo tutti insieme in un alloggio che l’organizzazione ha prenotato con il nome della nostra band – come quelli importanti, insomma. Ridiamo, sembriamo un gruppo di compagni di classe in gita al liceo. Le brutte sensazioni di qualche ora prima sono svanite, restiamo noi, candidi come sempre, nel cuore solo la voglia di suonare. Incrociamo qualcuno degli altri gruppi già a colazione, tanti sorrisi e saluti cordiali, tutti aspettiamo questo giorno da un po’ e ce lo leggiamo negli occhi a vicenda.
È bello osservarsi dai tavoli, spiarsi di nascosto per conoscere gli altri, dedurre il genere che fanno, fiutare l’entusiasmo e la paura bella di chi ha voglia di dimostrare. Nel teatro incontriamo gli altri musicisti, oggi siamo tanti e saremo noi stessi il nostro pubblico. Che importa se siamo rivali? Non c’è competitività che tenga quando è la musica a governare.
E non è la vittoria che conta
Noi abbiamo la responsabilità di rompere il ghiaccio. Le mani unite per darci la carica, e si va in scena.
Si spengono le luci, parte il primo riff e subito mi avvolge lei, la vibrazione. Chi suona lo sa, il mondo intorno vibra. Si può dare la colpa ai volumi troppo alti o alle casse troppo vecchie, ma la verità è che è dentro di noi. Quando tutto vibra sai che quello è il tuo meglio, ma soprattutto che quello è il tuo posto. È costante ma lieve, riesci a sentire tutto, dal battito del cuore al muoversi delle dita. Quella è precisione, è l’arte del silenzio, prescinde dalle note e dai rumori, coordina sguardi, movimenti e ci congiunge, noi cinque dentro ad un unico suono.
Eseguiamo i brani tutti d’un fiato e siamo già ai saluti, sorriso al pubblico mentre si aspetta il segnale del fonico per staccare il jack. Sotto al palco ci saltiamo addosso a vicenda: è andata bene, ci siamo piaciuti. Sono usciti i nomi dei vincitori e non eravamo noi. Eppure per me abbiamo vinto.
La musica è un ambiente difficile: il costo della strumentazione, delle registrazioni; i locali che non chiamano, o non pagano; il giudizio degli altri, sempre pronti a calcare le imperfezioni per scavalcarci, lì, in attesa che sbagli qualcosa; le aspettative, le domande, la vita che in parallelo va avanti e costruisce un futuro, la musica che slitta a piano B; le lotte con il Comune per gli orari, puntare ad un pubblico giovane in una città di vecchi che ci considera rumore, voler andarsene, ma avere tutto qui.
La nostra vittoria è questa: crederci sempre, nonostante tutto. Venire a prove con il sorriso, salire sul palco in ogni caso. Perché puntare ad un obbiettivo talvolta è più bello che averlo raggiunto, ed è dolce il fantasticare di chi sogna qualcuno commuoversi con la sua musica piuttosto che autografi da firmare e popolarità.
La felicità è piccola e non si fa toccare. Spesso si nasconde, in una semplice scaletta scritta a mano con qualche scarabocchio, in un testo composto e accartocciato, negli accordi di qualche canzone nuova che nasce davanti a noi. È lì, in quella sala prove insonorizzata male, tra quelle quattro mura che si impregnano di noi e di noi sapranno per sempre, cartongesso che ci osserva suonare e che su di se ha scolpito: chi ci crede, ce l’ha già fatta.
Maddalena Ansaloni
(In copertina i membri della band emergente Atop the Hill in concerto; foto di Michele Critelli)
Per approfondire: