L’Italia tra mille problemi economici, politici e sociali sembra aver dimenticato l’imminente trasformazione costituzionale che potrà essere attuata dopo il referendum confermativo sul taglio dei parlamentari. La data è stata fissata al 29 marzo ma sono molte le perplessità che circondano il voto popolare che può rappresentare una sorta di patto d’alleanza giallo-rosso, reso forte dalla paura degli onorevoli che in tal caso vorranno concludere la legislatura, considerato il consistente taglio.
Referendum confermativo
Il referendum confermativo è necessario quando la proposta di legge non incontra il voto favorevole di almeno due terzi dei componenti di ciascuna camera. Al contrario del referendum abrogativo, questo tipo di votazione non ha bisogno del quorum, non è necessario quindi che il cinquanta per cento più uno degli aventi diritto si rechi alle urne. L’articolo 138 della Costituzione chiarisce che “le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali”.
È la quarta volta che gli Italiani sono chiamati al voto attraverso questo tipo di referendum. L’ultima volta risale al 4 dicembre 2016, quando Renzi fece del disegno di legge, per superare il bicameralismo perfetto, una battaglia personale. A dire no furono circa il 60% dei votanti e Renzi optò per le dimissioni.
La propaganda: più forte del reale oggetto della riforma
Nonostante le firme di 71 senatori di vari gruppi che consentono la consultazione popolare, la proposta aveva incontrato l’appoggio dell’ampia maggioranza dei parlamentari, si pensi che l’8 ottobre 2019 alla Camera dei deputati erano 553 i voti favorevoli e solo 14 i contrari. Numeri che rispecchiano la difficoltà dei parlamentari di opporsi a questo disegno di legge. Gli onorevoli, se da un lato hanno tutto l’interesse nel salvare la propria “poltrona”, dall’altro sono costretti in un gioco mediatico. Quale politico o quale partito non subirebbe un crollo nei sondaggi schierandosi contro il taglio e quindi esponendosi agli attacchi social degli avversari? Ancora una volta si gioca sulla propaganda e si elude il reale oggetto della riforma.
È chiaro a tutti i politici, in questo periodo più che mai succubi dei sondaggi, che la proposta Grillina trova ampi margini di consenso e che quindi sarebbe fuorviante appoggiare il partito del “no”, a meno che l’asse PD-M5S non trasformi il voto in una fiducia al governo, situazione che sul modello Renziano, spingerebbe i partiti d’opposizione, Lega su tutti, a muovere la pesante macchina propagandistica contro l’avversario più che contro il testo della riforma. È così che gli oppositori del taglio dei Parlamentari diventano invisibili, pur conoscendo la inefficienza del progetto, preferendo schierarsi dove è più comodo. Rappresentanti del popolo intimoriti dagli elettori stessi, impossibilitati a sollevare critiche a riguardo.
Risparmio zero
Il taglio dei parlamentari è sempre stato portato avanti come una legge per ridurre gli sprechi dello Stato. A conti fatti, però, il risparmio è insignificante, si parla dello 0,012% della spesa pubblica per una riduzione di 115 senatori e 230 deputati, così da passare da 630 a 400 deputati e da 315 a 200 senatori. Il risparmio, pubblicizzato dal Movimento 5 Stelle, sarebbe il doppio rispetto a quello stimato dall’Osservatorio sui conti pubblici italiani, guidato da Carlo Cottarelli.
La linea politica della riforma si discosta dal concetto democratico dei padri Costituenti che legavano il numero dei parlamentari alla popolazione, rendendo la rappresentanza un concetto concreto. Dopo la riforma, l’Italia diventerebbe il Paese della UE con il minor numero di deputati in rapporto alla popolazione, arrivando a 0,7 deputati ogni 100mila abitanti. Inoltre, ci sarà una diminuzione del numero minimo di senatori per ogni regione che da 7 passerà a 3, ad eccezione del Molise e della Valle d’Aosta che, come è previsto nella legge attuale, avranno rispettivamente due e un eletto in Senato.
Un colpo alla democrazia
Ridurre la rappresentanza in periodi di crisi può risultare pericoloso e le ragioni di tale mossa politica, considerato l’esile impatto economico, si possono trovare solo in chiave di ricerca di consensi. Questo è davvero sintomo di grave instabilità per uno Stato che rischia di avere ampie zone non rappresentate in Parlamento. Basti pensare a grandi aree del Mezzogiorno, con bassa densità di popolazione, indebolite dall’incessante emigrazione verso il Nord Italia e l’estero.
La vittoria del “sì”, al referendum del 29 marzo, sembra scontata. L’ostilità degli Italiani per la casta della politica e la mancanza di un partito contrario al taglio dei parlamentari sembra propendere nettamente per l’attuazione della riforma. Il tema però non sembra suscitare abbastanza interesse e risulta essere posto in secondo piano: il timore per la riduzione della rappresentanza è preceduto dal pensiero di mandare a casa molti onorevoli con stipendi opulenti. È uno dei pochi casi in cui tutti i principali partiti sono uniti e soffiano nella stessa direzione, aumentando il vento del populismo.
Alessandro Bitondo