Io sono morta. Non ci sono più. Non potrò più sentire il gusto del caffè appena fatto, vedere il sole splendere, festeggiare il natale e prendere un treno. Questa è la mia storia, la storia di una donna di 35 anni che è morta sotto un treno. Non vi chiedo di capirmi o di sapere il perché, spero soltanto vi ricordiate di me.
Era un venerdì mattina come un altro. Stava passando un treno come un altro. Non un treno qualunque; uno di quei treni merci ad alta velocità, quelli che non mi piacciono perché creano vuoti d’aria, e ti fanno scivolare, e per un momento – solo un momento – ti senti trascinare, portare via con loro, e ti assale improvvisamente la paura che tutto possa finire, così, senza alcun preavviso. Ma dura solo un momento e poi passa. Uno di quei treni che dovrebbero essere annunciati. Uno di quei treni che si sentono anche a duecento metri di distanza. Accompagnati dal rumore sordo e prolungato che fa venire voglia di andare a controllare che cosa trasportino.
La stazione non è mai molto frequentata, specialmente alle nove di venerdì mattina, eppure quel giorno io ero lì. Sola. Non che non ci fosse nessuno intorno a me, anzi, ero insieme a una decina di persone. Ma la gente oggi è così: esiste perché è costretta, indifferente verso tutti e verso tutto. Ecco cosa c’era realmente intorno a me: freddo, indifferenza e quella piccola punta di odio gratuito che oggi ci accompagna.
Non credo che qualcuno di voi mi conosca, vi basti sapere che me ne stavo lì in piedi ad ascoltare la musica quando è passato quel maledetto treno. Il treno è arrivato, poi sono arrivate le grida, le lacrime e la disperazione. Dicono io mi sia buttata. Non lo sapranno mai. Non mi interessa neanche che lo sappiano; non mi importa che loro conoscano i motivi, l’unica cosa che conta è il fatto che io non ci sia più. Il mondo ha perso un cuore, una vita, una persona. Non ci conoscevamo, non ci eravamo mai incontrati. Però è come se con me fosse volata via una parte di voi. L’autore, lui, ha visto le nostre ceneri quando, sceso dal treno, ha trovato la calce bianca per coprire ciò che restava di me. Vi confesso che vederlo piangere mentre scriveva è stata una scena commovente.
Probabilmente dovrei aggiungere qualche dettaglio più personale; non lo farò, non ne ho la forza, non dopo tutto ciò che è successo. Voglio che sappiate che dopo che sono morta si sono messi a farmi delle foto. Ebbene sì, se uno di voi mi cercasse su internet probabilmente vedrebbe la mia salma senza vita stesa sui binari. Forse troverete le foto dove si vedono le mie gambe, o magari quella della mia testa; pensare che non mi ero neanche pettinata i capelli o truccata.
D’altronde è il 2020. È il secolo in cui si postano foto indignate per le guerre o per il riscaldamento globale e si chiama normalità la morte di qualcuno. Questo è il 2020. È un mondo in cui ci si indigna per uno, due giorni; poi si fotografia il cadavere di un altro essere umano che ha perso il dono della vita. Le foto sono meravigliose, sono una delle mie forme d’arte preferite; però non capisco come si possa fotografare una cadavere. Come si possa provare piacere ad osservarlo, a zoomarci sopra. Tutto questo mi disgusta. Fotografarmi per divertimento, come se fosse la carcassa di un piccione, cose fossi una cosa da niente.
È tutto inutile: verrà tutto scusato dal “tanto è soltanto una ragazzata”, la solita frase con cui ci si lava le mani da tutto. Forse questo era il motivo del mio gesto. Spero che ognuno di voi, ovunque sia, qualunque cosa stia facendo, ora si fermi un attimo a pensare a noi, a tutti quelli che hanno perso la vita sotto un treno e, per favore, non arrabbiatevi se il treno arriva in ritardo perché qualcuno si è suicidato. Piuttosto siate empatici, cercate di capire il perché di questo gesto estremo. Non agite con la solita indifferenza; perché è proprio quell’indifferenza, mista all’odio gratuito, la causa del ritardo. Siate umani, ecco tutto.
Articolo originariamente pubblicato su @claxon minghetti nel numero di novembre 2019.