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Brexit – Non è che un arrivederci

Brexit

Quasi non sembra vero ma la Brexit è giunta al suo ultimo capitolo (ma non alla conclusione) e l’ha fatto nel parziale silenzio mediatico. Infatti, mentre la cronaca politica ha i riflettori puntati su Trump e il Medio Oriente e mentre l’emergenza del Coronavirus allarma un po’ tutti, l’arrivederci più significativo della storia politica europea viene sussurrato a Bruxelles.

Auld Lang Syne

Mercoledì 29 gennaio, tra i diversi e importanti programmi a Bruxelles – tra cui la cerimonia in ricordo del 75esimo anniversario della liberazione da Auschwitz con l’intervento in plenaria di Liliana Segre – è stato compiuto l’ultimo passo formale per la Brexit. Il Parlamento Europeo ha quindi approvato, tramite votazione preceduta da un dibattito, l’accordo sottoscritto dal governo britannico e dalla Commissione Europea, già votato a dicembre nel Regno Unito e ora appoggiato da una larga maggioranza: 621 voti a favore, 49 contrari e 13 astenuti.

In aula si è scritta la storia ma la carica emotiva ha reso l’assemblea ancora più significativa e sono state dette parole importanti sia durante il dibattito avvenuto prima del voto che in quello successivo. In particolare Nigel Farage, capo del Brexit party, si è augurato che l’uscita del Regno Unito possa aprire un dibatto nell’Europa “che amiamo, mentre odiamo l’Unione Europea”. In risposta alle pesanti parole britanniche, gli eurodeputati scozzesi si sono espressi ricordando che la “Scozia è una nazione europea”.

Non sono mancate parole di conforto come quelle di Micheal Barnier, capo negoziatore UE per la Brexit, che ha assicurato rapporti distesi con il Regno Unito facendo i migliori auguri ai colleghi d’oltre Manica e che successivamente ha ricordato che “si può essere patrioti del proprio Paese ma anche europei ed europeisti”.

Al termine della votazione, gli eurodeputati si sono tenuti per mano e tra abbracci e qualche lacrima, l’intera plenaria si è alzata per cantare l’Auld Land Syne, conosciuta in Italia come il “Valzer delle candele” e in Francia con il titolo “Ce n’est qu’un au revoir” (Non è che un arrivederci), un canto scozzese tradizionale che viene intonato per gli addii e che ricorda i cari tempi trascorsi.

I tempi della Brexit

Siamo ormai abituati alla lunga epopea della Brexit che va avanti ormai da anni nella lenta e complicata macchina della burocrazia ma che, a quanto pare, con il voto di mercoledì conclude il primo passo, fatto di accordi e impegni politici, verso l’attuazione concreta dell’uscita. Senza elencare tutte le tappe, il processo non sarà così immediato e passeranno ancora degli anni prima che il Regno Unito esca de facto dall’UE. Da adesso infatti si entrerà – come sancito dal concordato voluto dal governo di Boris Johnson e i principali organi europei – in un periodo di transizione che durerà fino al 31 dicembre 2020.

Tale data però può essere estesa affinché si giunga ad una soluzione per questioni ben più complesse rispetto ai termini di separazione che hanno occupato le discussioni negli ultimi due anni. Si tratta di temi delicati che riguardano le relazioni future in termini di commercio (e quindi di dazi e gestione della concorrenza) ma anche di sicurezza; i negoziati inizieranno a metà febbraio ma i tempi sono molto stretti.

Nonostante Boris Johnson stimi che si possa giungere ad una soluzione entro la fine dell’anno, Micheal Barnier ritiene che ci vorrà almeno un periodo di transizione di tre anni; per accontentare il Premier britannico si dovrebbe giungere ad un accordo al massimo entro novembre (per poi votarla a dicembre), ma le tempistiche vanno calcolate bene perché un’eventuale proroga andrà richiesta entro sei mesi dall’inizio delle trattative e sarebbe meglio evitare errori di valutazione per evitare una situazione di limbo a lungo termine che potrebbe non essere gradita dall’UE.

Rimane certo che, prima che la Brexit – anche nel caso in cui venga realizzata nei termini del 2020 – produca i suoi concreti effetti, passeranno ancora degli anni (se ne stimano almeno 5) in cui l’economia britannica dovrà affrontare fasi delicate che potrebbero influenzare il dibattito e le scelte politiche. Tuttavia per ora bisogna ragionare al condizionale con l’unica consapevolezza che il primo capitolo è stato chiuso.

E ora?

La Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, in occasione della plenaria, ha ribadito l’offerta mossa dall’UE per quanto riguarda i rapporti commerciali che non prevede dazi né tasse sui prodotti ma che impegna il Regno Unito ad una serie di condizioni che riguardano il diritto dei lavoratori, l’intervento statale e in genere gli alti standard europei qualità e ambientali. Questo genere di accordo è tutto sommato conveniente ed argina il timore dei negoziatori europei che, per sanare l’economia dopo Brexit, la Gran Bretagna ricorra a tassazioni basse e stipendi minimi per fare concorrenza alle aziende europee.

Per quanto riguarda i cittadini, e in particolare quelli europei, le novità pratiche sono diverse: non verrà più accettato l’euro come moneta di scambio (in passato, pur avendo mantenuto la sterlina, veniva accettata); per la durata del periodo di transazione (il 2020) verrà accettata la Carta d’Identità come documento identificativo per entrare in UK ma dal 2021 sarà necessario un passaporto; fino al 31 gennaio sarà possibile trasferirsi o soggiornare per il tempo che si desidera mentre per coloro che entreranno nel territorio britannico dal 1° febbraio sarà necessario un visto da aggiornare regolarmente per vivere e lavorare (esattamente come succede fuori dall’Unione Europea).

Per quanto riguarda il programma di Erasmus+ (che molto probabilmente continuerà ad esistere) e per i temi di cooperazione nell’ambito della sicurezza, si discuterà una volta chiarite le questioni commerciali, di pesca e dei trasporti.

La lezione della Brexit

L’uscita del Regno Unito dall’UE è un evento storico che stiamo vivendo sulla nostra pelle e che potremo raccontare ai posteri ma nulla è storicamente utile se non insegna qualcosa. Dalla Brexit abbiamo tanto da imparare, in primis come cittadini: la scelta che i britannici hanno fatto col referendum nel 2016 – condivisibile o meno, influenzata da corrette o errate informazioni – pone la coscienza di cittadino davanti alle proprie responsabilità e ai propri poteri. È la dimostrazione che la politica non è un gioco di capricci – e questo forse dovrebbero capirlo pure i politici – ma un sistema che regola le vite, in cui una croce, un “sì” o un “no” fa la differenza.

Ma forse la lezione più importante, politicamente parlando, l’ha fatta notare Guy Verhofstat, coordinatore Brexit, sostenendo che l’UE vada radicalmente riformata il più velocemente possibile anche per superare la lentezza nel prendere decisioni (superando quindi il sistema di voto all’unanimità) e per garantire un “grande futuro” all’Unione.

Il Presidente del Parlamento Europeo David Sassoli al termine della votazione ha voluto salutare i colleghi d’oltre Manica ricordando che “Abbiamo molto più in comune di quanto ci divide […] lasciate l’Unione Europea ma continuerete a far parte dell’Europa per i valori che ci tengono insieme e che ci uniscono profondamente”. Dalla mezzanotte del 1° febbraio spariranno le bandiere europee che da anni affiancavano la Union Jack fuori dalle sedi delle istituzioni britanniche.

Sofia Bettari

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