
Mi scusi Professore, lei segue il basket? Io no, personalmente, ma non ho comunque potuto ignorare la tragica vicenda che domenica sera, 26 gennaio 2020, ha fatto esplodere notiziari e social: l’incidente in elicottero in cui il giocatore dell’NBA Kobe Bryant ha perso la vita insieme ad altre otto persone, tra cui la figlia Gianna.
Non si parlava d’altro, in quelle ore durante le quali l’identità delle vittime veniva accertata e la presenza di Kobe tra di esse confermata. La disperazione per l’accaduto veniva condivisa nelle storie di Instagram, nei post su Facebook, nelle chat WhatsApp. Tutti avevano una lacrima da versare, una preghiera da sussurrare. È strano come la morte di un estraneo possa toccare così nel profondo, ma dopotutto non è forse questo che sono gli idoli, sconosciuti che sembra di conoscere da una vita?
Tuttavia io mi chiedo, Professore, quante di tutte queste persone guardassero le sue partite dall’inizio alla fine; quante seguissero la sua vita al di fuori del campo da gioco; quante fossero a conoscenza, ad esempio, della sua vittoria agli Oscar del 2018 con il cortometraggio Dear Basketball. Quei milioni di profili che hanno iniziato a seguire la pagina Instagram di Kobe a partire dal tragico evento riflettono altrettanti fan “veri fan” del grande giocatore?
Non vorrei sembrare irrispettosa, Professore: la mia perplessità non riguarda la maglia 24 dei Los Angeles Lakers né coloro che provano per essa una sincera ammirazione e devozione. Ciò che non riesco a digerire è questo teatrino che ricorre ogni volta in cui un evento tragico coinvolge una persona famosa, venendo di conseguenza ipermediatizzato: più se ne parla più la gente si sente obbligata a dimostrare la propria partecipazione alla sofferenza comune.
Piangiamo una ragazzina, promessa del basket, a cui viene strappato troppo presto un futuro brillante; chiudiamo gli occhi davanti a quei tanti bambini che non potranno mai mostrare il proprio talento, perché giocano con una palla di fogli di giornale e perdono la vita tra i proiettili o le onde del mare prima di poter tirare in un canestro. In realtà, Professore, non siamo solo noi a chiudere gli occhi: semplicemente tutto ciò non ci viene mostrato. È proprio vero che se occhio non vede cuore non duole.
Ancora una volta voglio ribadire tutto il mio rispetto per coloro che hanno perso la vita nell’incidente di domenica. Allo stesso tempo le chiedo, Professore, come fare in modo che le telecamere mediatiche vengano puntate sulle disgrazie che colpiscono ogni giorno migliaia di innocenti, che meritano rispetto tanto quanto quei singoli individui che, nel loro ambito, hanno fatto la storia.
Clarice Agostini
Occhio non vede… è il quinto articolo di Mi scusi Professore, una rubrica di Clarice Agostini.