Cronaca

ILVA – Una crisi aziendale all’italiana

Ilva

Nelle ultime settimane l’ex ILVA è tornata sotto la luce dei riflettori. Lo scorso 5 novembre, infatti, ArcelorMittal, multinazionale franco-indiana che possiede il complesso, ha annunciato che entro trenta giorni avrebbe restituito al governo gli stabilimenti in Italia: il tutto dopo solo un anno dall’acquisizione. In realtà i problemi recenti della più importante industria siderurgica italiana partono da lontano: l’impatto ambientale, soprattutto a Taranto e Genova, ha avuto gravi ricadute sulla salute di operai e cittadini. Da qui sono nate due esigenze, apparentemente opposte: preservare l’occupazione nelle fabbriche e contrastare le conseguenze sull’ambiente. Ma come si è arrivati a tutto questo?

Un gioiello italiano?

L’ILVA nasce a Genova nel 1905 dall’unione, tra le altre, delle acciaierie di Terni e Piombino. La nuova società col tempo si espande, costruendo stabilimenti a Bagnoli (Napoli) e Cornigliano (Genova) fino ad inaugurare, nel 1965, il centro siderurgico di Taranto, il più grande d’Europa. La società ha vissuto alti e bassi, con gravi crisi negli anni ’20 e ’80: ciò ha condotto a svariati cambi di proprietà, restando comunque fino al 1995 a parziale controllo statale.

L’impatto dell’ILVA sull’economia italiana è sempre stato imponente: la produzione totale di acciaio nei vari altiforni oggi equivale a 24 miliardi di euro, l’1,4% del PIL italiano; i posti di lavoro sono oltre 11mila (8200 solo a Taranto), senza contare l’indotto. All’apparenza, quindi, sembra uno dei tanti orgogli italiani; purtroppo, la realtà è molto meno rosea.

I problemi ambientali

Gli stabilimenti del gruppo ILVA sono stati più volte al centro delle polemiche per il massiccio impatto ambientale nelle zone circostanti. Il caso più eclatante è senza dubbio quello di Taranto: qui le acciaierie sorgono in un’area vasta oltre 15 kilometri quadrati nelle immediate vicinanze del quartiere Tamburi, che conta 18mila abitanti.

Nel 2012 due perizie, una chimica e una epidemiologica, depositate presso la Procura tarantina, attestano che il centro siderurgico nel 2010 ha rilasciato nell’aria ben 4 milioni di kilogrammi di polveri e notevoli quantità di sostanze tossiche quali benzo(a)pirene e diossine; inoltre nei quartieri limitrofi sono morte 637 persone per cause imputabili ai veleni dell’Ilva.

Tali perizie portano, nel luglio 2012, al sequestro dell’area a caldo, generando un caso politico e pubblico tuttora aperto. Per ILVA non è una prima volta: già nel 2002 parte degli stabilimenti di Genova venne sequestrata e in seguito chiusa, per problemi ambientali e di salute nel quartiere di Cornigliano. Negli anni seguenti diversi governi promuovono decreti e piani ambientali per cercare di risolvere il problema di Taranto e salvare i numerosi posti di lavoro. Per questa ragione, nel 2015, il gruppo Riva perde il possesso dell’ILVA, che viene così commissariata.

ArcelorMittal e lo scudo penale

L’anno dopo viene indetta una gara internazionale per la vendita degli stabilimenti. Risulta vincitrice una cordata formata da ArcelorMittal, Intesa Sanpaolo e Marcegaglia, che dal 1° novembre 2018 assume il controllo degli impianti in affitto, nella prospettiva di un’acquisizione definitiva in futuro.

Per invogliare gli investitori a comprare le acciaierie, nel 2015 viene istituito lo scudo penale, ossia l’immunità penale per i manager nell’attuazione del piano di risanamento ambientale. In questo modo si evita che la nuova proprietà paghi le colpe delle vecchie gestioni. Tale immunità viene però abrogata dal governo Conte I nel 2018: Mittal imputerà proprio a questo evento l’abbandono dell’ex ILVA. Tuttavia, più di un commentatore ritiene che lo scudo in realtà celi altri motivi: tra questi, le difficoltà nell’attuazione del piano ambientale e negli interventi sulla sicurezza degli impianti.

Una soluzione difficile

A conti fatti l’ILVA, orgoglio dell’industria italiana, si è rivelata un esempio dei tanti problemi che affliggono il nostro Paese: la burocrazia oceanica, la scarsa lungimiranza della nostra classe politica, la manifesta passività verso le multinazionali.

Lo stabilimento di Taranto, in particolare, si è sommato ai tanti problemi che affliggono il Sud: un paradosso clamoroso, per un’opera che ambiva a combattere l’annosa questione meridionale. Ora il confronto tra il governo e Mittal è in fase di stallo: il rischio di chiusura degli stabilimenti è stato scongiurato solo temporaneamente. E dopo otto anni l’opinione pubblica chiede a gran voce una soluzione definitiva: tanti sono i posti di lavoro a rischio; tantissimi, soprattutto, sono i cittadini tarantini che pretendono un ambiente sicuro e pulito.

Riccardo Minichella

(In copertina un’immagine dell’Ilva di Taranto da ilmanifesto.it)

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