Recinti. Staccionate. Muri. Ne siamo circondati: sicuramente di fronte al cortile della casa di ognuno di noi c’è un cancello che cigola ormai da svariati anni, con la vernice un po’ scrostata; attorno alla scuola c’è un bel muro alto, oltre il quale si rischia sempre di mandare il pallone, che finisce per strada, nell’ora di educazione fisica; una rete di tela morbida circonda il campo da calcio, perché la palla non può di certo colpire in faccia qualche spettatore, durante la partita. Le barriere ci tengono al sicuro, ci proteggono dall’esterno. Oppure proteggono l’esterno da quello che contengono. Che ci piacciano o no, non possiamo farne a meno.
E poi c’è anche un’altra rete, che per una volta ha avuto il potere di unire le persone, invece che dividerle, ed è la rete di internet. Ovviamente è stato facile ripristinare la sua vecchia funzione di recinto, di muro che separa, che allontana, che aumenta la distanza. Il 15 novembre il governo iraniano, a seguito delle proteste contro l’aumento dei prezzi del carburante, impedisce l’accesso a internet a migliaia di cittadini. Poche ore dopo svariati operatori telefonici interrompono i servizi. Il paese resterà isolato per una settimana.
L’isolamento
Non è facile dire qualcosa di non banale. Certo, è inevitabile condannare una misura restrittiva come questa, ma non ci si può fermare in superficie. Bisogna analizzare il problema più a fondo, più da vicino. Perché proprio chiudere internet? È una mossa curiosa e subdola, molto astuta, a pensarci bene. Chi di noi non controlla gli orari del bus sul telefono, chi non manda una mail di lavoro, o non chiama i genitori almeno una volta al giorno? Non solo: quante informazioni fondamentali, dai telegiornali alle enciclopedie online, sono archiviate nel web?
Ecco che vietare l’accesso a internet diventa il modo più sottile di isolare un paese dall’esterno, e, per quanto riguarda gli individui, l’uno dall’altro. Perché chi è isolato si sente smarrito, non ha certo la forza di ribellarsi, e soprattutto, non può chiedere aiuto. Nel frattempo il resto del mondo percepisce ancora di più la distanza che lo separa da queste dinamiche, e più appaiono lontane, meno sembrano reali: allora, perché preoccuparsene?
A questo punto spingiamoci ancora più ad est, raggiungiamo la Cina, Hong Kong più precisamente. La popolazione non si è trovata di fronte all’impossibilità di comunicare, certo, ma ha avuto di che preoccuparsi. Che sia per la diffusione di fake news da parte del governo Cinese che screditano i manifestanti, o per il rischio di essere arrestati per aver preso parte alle proteste dopo che il proprio numero privato è stato rintracciato dall’account personale di Telegram, internet non si è dimostrato sicuro per i cittadini di Hong Kong che rivendicano l’indipendenza dalla Cina.
Questo, tuttavia, non ha fermato nessuno: i manifestanti continuano ad organizzarsi via internet, sfruttando un programma che garantisce l’anonimato, tramite bluetooth. Hanno utilizzato le minacce della rete per diventare più forti.
Il silenzio
Il silenzio avvolge in fretta notizie come queste. È importante quantomeno ricordare, sia per imparare qualcosa, sia perché alla fine è l’unica cosa che possiamo fare. Qui non ci troviamo di fronte ad un popolo che deve lottare per ottenere qualcosa, ma davanti a cittadini cui viene persino impedito di combattere. È difficile, non lo nego, immaginare situazioni simili, per noi giovani che delle lotte abbiamo al massimo un tetro ricordo. Ma la guerra esiste, e anche solo per questo dovrebbe farci riflettere.
Anna Passanese