Politica

#MEStoo – Anche il MES può essere compreso

MES

Nel recente periodo di confusione innescato dalla polemica sul MES, nessuno sembra aver capito esattamente cosa sia, richiamando alla memoria lo scompiglio semantico del famigerato “spread”. Mostrando estrema solidarietà nei confronti dell’informazione e del MES, che è stato duramente attaccato in questi giorni e forse soltanto incompreso, proviamo a spiegarne il funzionamento creando un movimento per la sua tutela.

Il MES

Il Meccanismo Europeo di Stabilità entra in vigore nel 2012 sostituendo due fondi con la stessa funzione creati in precedenza (EFSF e EFSM) ed è un’organizzazione intergovernativa che serve da fondo finanziario per la stabilità economica dell’Eurozona. La necessità di un fondo Salva-Stati nasce dal fatto che, condividendo la stessa moneta, le conseguenze di una crisi finanziaria in uno degli Stati membri dell’Eurozona si estenderebbero agli altri e perciò, per tutelare la stabilità economica, si mettono dei soldi in comune da utilizzare in caso di necessità.

Il fondo è gestito dal Consiglio dei governatori (i ministri finanziari dell’Eurozona), da un Consiglio di amministrazione (nominato dal Consiglio dei governatori) e da un direttore generale, con diritto di voto. Vi sono poi due osservatori: il commissario UE agli Affari economico-monetari e il presidente della BCE.

Il MES emette strumenti finanziari e titoli concedendo prestiti a precise e severe condizioni, può acquistare titoli di Stato dell’Eurozona e può concludere intese o accordi finanziari anche con enti privati. Il capitale autorizzato, ovvero quello esigibile dai funzionari del MES in caso di una forte crisi finanziaria (di entità maggiore rispetto a quelle vissute finora e che ci auguriamo di non vedere mai), si aggira intorno ai 700 miliardi di euro, mentre il capitale realmente versato, da ogni Stato membro in base al valore del PIL, è di circa 80 miliardi di euro che possono essere erogati in prestito agli Stati in serie difficoltà economiche.

Il funzionamento del Fondo è piuttosto intuitivo: avendo una garanzia di 700 miliardi di euro, il MES può richiedere prestiti al mercato finanziario con tassi d’interesse bassi, perché gode appunto di una garanzia stabile formata dall’impegno dei governi dell’Eurozona. Tali risorse finanziarie verrebbero poi prestate con tassi d’interesse molto più convenienti per gli Stati membri, che altrimenti si sarebbero dovuti presentare da soli nel mercato finanziario, provando che a quanto pare l’unione fa ancora la forza, tanto che Grecia, Cipro, Portogallo, Spagna e Irlanda anche grazie all’aiuto del MES hanno scongiurato la grande crisi economica che già nel 2011-2012 aveva messo in ginocchio l’Europa.

Mappa dei paesi dell’UE che aderiscono al MES.

La riforma della discordia

Il semi-sconosciuto MES ha acceso il dibattito che sta mettendo in crisi il nostro governo, in particolare a causa della sua riforma, ritenuta utile dalla componente rossa della maggioranza, ma da rinviare secondo la maggioranza gialla, generando così una frattura su questioni abbastanza complesse e, a quanto pare, in grado di creare molta confusione anche tra coloro che nel precedente governo ne seguirono e approvarono i passaggi.

Discussa dal 2018, con questa riforma, si cerca di accontentare sia gli Stati finanziariamente a rischio che quelli più economicamente solidi (generalmente quelli nordici), i quali sostengono di dare un contributo troppo consistente che incoraggerebbe i paesi periferici a indebitarsi grazie ai fondi, giudicati invece da quest’ultimi come sottoposti a regole troppo rigide.

I tre aspetti fondamentali della riforma sono riassumibili così:

  1. Le linee di credito PCCL (ne esistono di due tipi e questa è la più accessibile) verranno erogate senza l’obbligo di riforme di austerity, servirà solo una lettera d’intenti – esclusivamente per quei paesi che godono di precisi parametri PIL (10 paesi su 19 al momento);
  2. Per i paesi indebitati, un buon risultato è stato ottenuto grazie al backstop per il Fondo di risoluzione unico: un sistema che gode di 55mld di euro, per finanziare le banche private in grado di rendere gli istituti bancari (soprattutto dei paesi periferici) più sicuri;
  3. La terza modifica è quella che fa storcere il naso all’Italia e riguarda la discussa “ristrutturazione” del debito, ovvero la modifica delle condizioni del prestito.

È questo il nodo della questione ed è fondamentale capirlo: ristrutturare un debito vuol dire che le due parti –creditore e debitore – trovano un punto d’incontro, ad esempio allungando i tempi di restituzione o abbassando il valore concreto del prestito erogato.

Questo può voler dire che il paese creditore potrà restituire meno di quanto ha ricevuto (e sapendolo, gli Stati potrebbero applicare tassi d’interesse più alti per tutelarsi) mettendo in difficoltà gli enti privati, i quali svolgono un ruolo chiave nel sostegno ai paesi in crisi finanziaria ed è per questo che la ristrutturazione del debito non è una clausola obbligatoria del MES, al contrario di quanto è stato erroneamente detto, ma una possibilità che andrà prima vagliata dalla dirigenza solo in casi estremi, altrimenti lo stesso meccanismo perderebbe di senso non assicurando più una convenienza rispetto al mercato finanziario.

Nella notte tra il 4 e il 5 dicembre i ministri delle finanze dell’Eurogruppo hanno deciso di rimandare a gennaio l’approvazione della riforma del MES, che avrebbe dovuto essere approvata definitivamente nelle prossime settimane, ma in ogni caso il testo non potrà più essere modificato.

Cifre azzardate

Il dibattito nato dalla riforma del MES ha visto una serie di proposte, dalla modifica alla totale cancellazione del fondo, dall’accusa di finanziare le banche tedesche alle cifre catastrofiche versate dall’Italia.

Facciamo chiarezza: no, non abbiamo versato 60 miliardi di euro in cinque anni e, se proprio vogliamo essere precisi, quella cifra non è proprio mai stata versata. Il contributo italiano al MES, stando all’ultimo bollettino di Banca D’Italia ammonta a “soli” 14 miliardi di euro. In ogni caso si tratta di un prestito che verrà restituito con i suoi interessi, e che produce dividendi ovvero guadagni derivati dai prestiti ad altri Stati, esattamente come funziona per le quote di un’azienda.

Inoltre, il contributo versato non proviene dal prelievo fiscale (dalle tasse insomma) ma dal debito pubblico, cioè emettendo credito (nonostante il debito pubblico in Italia sia un problema in quanto molto elevato). Ora, bisogna anche saper ballare: è chiaro che dividendi e interessi sono proporzionali al rendimento dei titoli venduti, perciò il ricavo sui soldi investiti si basa sul valore dei titoli di Stato. Va considerato anche però che emettere titoli del genere comporta una produzione di interessi passivi, una perdita non ingente nei confronti del PIL.

Infine no, non è un fondo salva-banche, è un fondo che ha impedito il default di intere economie che avrebbero generato effetti negativi a catena; chiaramente il ruolo degli enti privati, come più volte sottolineato, è fondamentale ed è inevitabile che questi ne traggano indirettamente beneficio.

La questione si risolve in punti di vista: c’è chi considera il Fondo un investimento e chi un vuoto a perdere. Prima di prendere posizione però occorre valutare con minuzia la questione – non è mai tardi per cambiare opinione e punti di vista e questo la politica ce lo insegna bene: Lega e Cinque Stelle dalla poltrona avevano appoggiato questa riforma, ma ora che i verdi l’hanno persa e che i gialli non sanno che farsene, il dibattito si accende.

L’opinione è libera ma l’argomento va compreso. #MEStoo

Sofia Bettari

(In copertina moritz320 da Pixabay


Per approfondire, il Percorso Tematico dedicato all’Unione Europea:

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