Di quella volta in cui, appena sorto il movimento #meToo contro gli abusi sessuali e la violenza sulle donne, riemersero le pesanti accuse della figlia adottiva Dylan Farrow nei confronti di Woody Allen, di quella volta in cui Amazon Studios sospese l’accordo di distribuzione dell’ultima opera del regista negli Stati Uniti, di quella volta in cui l’uscita della stessa pellicola fu ritardata di un anno nelle sale europee, delle mille controversie degli ultimi due anni purtroppo non ci è dato a sapere nulla più di quanto ci abbiano detto giornali e qualche intervista. C’è una cosa che però è certa: il cinema americano, voltando le spalle all’ideatore di Annie Hall, ha voltato le spalle a un gioiello brillante del cinema d’autore.
Piccoli Allen
I protagonisti di Un giorno di pioggia a New York sono a malapena dei giovani adulti. Prendete la descrizione di Isaac Davis nel monologo iniziale di Manhattan e mettetela addosso a un ragazzo che ha appena compiuto vent’anni. Otterrete Gatsby Welles, o forse sarebbe meglio dire un Woody Allen nel pieno della sua più matura personalità e nel corpo di un collegiale. È il figlio un po’ eccentrico, magrolino ed estremamente intelligente di una benestante famiglia newyorchese, condannato dalla madre ad una vita di pretenziosa adeguatezza costruita su perfetti stereotipi sociali. La sua New York però è quella anni ‘20 di Frank Sinatra, dei film classici hollywoodiani in bianco e nero, dei piano bar e soprattutto di una pioggia incessante che rende la città grigia e piena di colori.
Potremmo essere in cima all’Empire State Building in bianco e nero.
Gatsby
Ashleigh è la sua ragazza nonché la sua controparte. Figlia di un ricco banchiere dell’Arizona, ama i film europei ed è un’aspirante giornalista. Quando vince un’intervista esclusiva al famoso regista Roland Pollard, Gatsby ci vede un’occasione per trascorrere con lei un weekend romantico nella città che ama. Ma intendiamoci: se tutto nelle storie andasse secondo i piani, non esisterebbero storie. Ashleigh rimane inglobata nella Hollywood attuale, quella delle star del cinema, degli scoop sensazionali, del profitto.
Gatsby si ritrova così a dover vivere la sua New York in tutt’altro modo e con tutt’altre persone rispetto a come si era prefissato, ma mai deluso. Ritrova il rapporto con sua madre e ritrova Shannon, sorella più piccola di una sua ex ragazza. Nella sua ineffabile innocenza, è lei che più di tutti rappresenta la genuinità dell’ideale romantico che la Grande Mela racconta. Basterebbe un tardo pomeriggio uggioso, Central Park, un appuntamento sotto l’ombra un vecchio orologio…
Fare i conti con la vita reale
Il nome di Gatsby è senza dubbio un omaggio al celebre protagonista dell’omonimo romanzo di F. Scott Fitzgerald. Sono entrambi figli del romantico sogno di un’idealista epoca svanita e hanno due modi completamente diversi di fare i conti col passato. Jay Gatsby rincorrerà per tutta la vita, controcorrente, il tempo concluso. Gatsby Welles non si illude mai. È questo, credo, il motivo per cui l’intero film potrebbe essere ricondotto ad una versione disillusa di quel capolavoro che nel 2012 aveva rappresentato Midnight in Paris. Se in esso predominava, al culmine dei suoi effetti, la “sindrome dell’epoca d’oro”, uno stato d’animo misto di nostalgia e forte desiderio di un momento storico superato, in Un giorno di pioggia a New York i ragazzi, forse proprio per la loro giovane età, sanno costruirsi la loro epoca perfetta nella realtà in cui vivono.
Un giorno di pioggia a New York non è un capolavoro
Ci piace (o non ci piace) Woody Allen perché in oltre cinquant’anni di carriera ci ha raccontato situazioni di vita convenzionali senza (quasi) mai essere banale. Spesso ci ha inabissato in situazioni eteree, surreali, metafore eccellenti del mondo in cui viviamo. Questo film, sia chiaro, non è uno di quei capolavori. Non lo è perché il regista non ha osato, non è mai imprevedibile. Nonostante questa spiccata prevedibilità credo tuttavia che la pellicola mostri anche qualcosa di nuovo, mai visto. Trasportando le loro fantasie romantiche nel loro mondo, invitandoci quindi a non essere mai il prodotto banale di una catena di montaggio o la vittima illusa di una società conformista, i protagonisti e le vicende lasciano negli spettatori una sensazione di profonda positività. È una spinta a ritrovarci in un mondo che plasmiamo noi stessi perché, come dice Shannon, “la vita reale è per chi non sa fare di meglio”.
Arianna Bandiera