Se potessi tornare indietro non avrei dubbi. Il teatrino mediocre e prevedibile allestito dalla Lega al PalaDozza non aveva un briciolo dell’energia e delle emozioni che è possibile percepire solo in una piazza stracolma di gente. Quella delle Sardine, poi, non è stata solo una manifestazione ben riuscita bensì qualcosa di diverso, davvero imprevedibile. A Bologna è nato un movimento dai confini ancora incerti ma che di sicuro rappresenterà una svolta per la politica italiana nei prossimi mesi. Appena compreso il gigantesco errore giornalistico che, ignaro di tutto ciò, avevo commesso, ho quindi iniziato a seguire molto attentamente l’evolversi di questo fenomeno così da poter dare un personale contributo al dibattito.
Fare politica oggi
La persona che vive una condizione di malessere non è sempre dotata degli strumenti necessari a comprenderne le cause e trovare le adeguate soluzioni per uscirne. Questo è un semplice principio della psicologia che vale anche per i gruppi e che può naturalmente trovare applicazione nella politica. Ci sono infiniti esempi, alcuni molto recenti, in cui cittadini infelici ma privi un orientamento politico coeso, hanno indirizzato le loro istanze di cambiamento verso scelte rivelatesi lesive per i loro stessi interessi.
Lungi dall’essere il preambolo di una tesi anti-democratica, quello appena espresso è in realtà il motivo per il quale tutti i movimenti, anche quelli di protesta, avrebbero bisogno di leader preparati. Il leader, in ambito politico, è un ruolo di enorme responsabilità, ben più di un semplice portavoce. È la figura che recepisce i malumori e le preoccupazioni provenienti dalla base per tradurli in idee chiare e progetti coerenti.
Oggi in Italia il desiderio di cambiamento è forte, in special modo tra i giovani che già da mesi sono impegnati nelle manifestazioni per l’ambiente di Friday For Future. A questo entusiasmo però si contrappone un grosso problema, forse il problema principale del nostro paese negli ultimi trent’anni, ciò che lo frena e lo condanna a una lenta e inesorabile decadenza: la progressiva depoliticizzazione della società.
Da cittadino dotato di spirito critico e attento al benessere della propria comunità, l’individuo si è ormai trasformato in un semplice consumatore, passivo verso ciò che accade attorno a lui e interessato soltanto a soddisfare il proprio personale piacere. E così è cambiata anche la politica, le cui regole sono sempre più vicine a quelle del marketing. Ad attrarre è il leader vincente, capace di vendere un sogno, colui che possiede la ricetta giusta per sconfiggere istantaneamente ogni male. E le opinioni altrui non sono nemmeno più degne di essere considerate tali, venendo dunque declassate a menzogne.
Da che parte stare
In una situazione così disperata si sente più che mai la mancanza del ruolo pedagogico della politica. Quello che fornisce diversi criteri di lettura della realtà e permette a ogni cittadino una partecipazione democratica sana e consapevole. Un ruolo che purtroppo in questo momento non viene ricoperto da nessuno dei principali esponenti politici, nemmeno da un giovane vecchio come il trentaduenne Mattia Santori, principale portavoce delle sardine. Quando si fa una critica a un politico bisognerebbe prendersi la responsabilità di fornire motivazioni politiche in sostegno delle proprie tesi. Santori, tuttavia, si mostra sempre titubante a prendere posizioni precise e sembra fare confusione fra i termini “apartitico” e “apolitico”. Anche quando si appropria di un significante, come ad esempio “sinistra”, cerca di declinarlo in modo che risulti il più possibile generico e astratto.
Certo, è comprensibile che il movimento preferisca non associarsi ad alcun partito; ma ciò non gli dovrebbe impedire di prendere posizione sui temi più rilevanti, o almeno su quelli che riguardano i giovani. Lo si può fare pur restando apartitici. Si potrebbe iniziare ad esempio con una tematica che gli italiani sotto i trent’anni dovrebbero, purtroppo, conoscere bene: l’emigrazione. E no, non quella dall’Africa all’Italia. In questo caso si intende l’esodo dei tantissimi cittadini del nostro paese costretti a cercare lavoro all’estero.
Quanto cambierebbero le nostre vite se l’Italia investisse di più nella ricerca e nell’istruzione? Se le università fossero gratuite? O se anche i trasporti pubblici, almeno per gli studenti, fossero gratuiti? Proposte semplici come queste ci possono apparire distanti perché non siamo abituati a pensare al futuro con accezione positiva, ma che in realtà sono a portata di mano. Basta volerlo. Però lo stimolo, in una condizione come la nostra, può diffondersi solo a partire dall’alto e non può essere quindi, come suggerisce Santori, “colpa nostra“.
La piazza, come è inevitabile che sia, è depoliticizzata. Non sarebbe ragionevole aspettarsi altro. Ma chi guida la piazza non può essere uno dei tanti. Se si vuole davvero risvegliare la coscienza sopita dei cittadini bisogna saper costruire un discorso ripartendo dalle basi. Senza la grammatica politica, questa pregevole iniziativa è destinata a scomparire in pochi mesi. Ma non possiamo permettere che le manifestazioni delle Sardine vengano ricordate solo per le gare a chi mostrava i cartelli con la battuta più divertente. Noi contestiamo Salvini per quello che esprime, non solo per come lo esprime. E allora troviamo la volontà di contrapporgli una diversa idea di società a partire dalle cose a noi più vicine. Concretezza non dev’essere per forza sinonimo di demagogia.
Diventare grandi
Le Sardine sono nate a Bologna all’inizio di una campagna elettorale che è forse la più rilevante nella storia della regione. Per la prima volta c’è la possibilità che un candidato sostenuto dalla Lega e della coalizione delle destre venga eletto presidente dell’Emilia-Romagna. Ciò comporterebbe una netta rottura con i valori di uguaglianza, solidarietà e tolleranza facenti parte della tradizione locale da generazioni. È contro slogan inaccettabili come “liberiamo l’Emilia-Romagna” che si è svolta la prima gloriosa protesta in piazza Maggiore, dove migliaia di persone hanno intonato Bella Ciao per lanciare un messaggio forte: “Non abbiamo bisogno di essere liberati!”.
Il fenomeno ha ben presto varcato i confini regionali e si è diffuso a macchia d’olio in tutto il paese, anche nelle regioni non interessate dal voto di gennaio. Un successo straordinario che di sicuro ha sorpreso tutti, a cominciare dai quattro organizzatori. La diffusione delle Sardine in tutta Italia però sta facendo emergere i limiti del progetto che per diventare un punto di riferimento comune a tutti, dalle Alpi alla Sicilia, deve assumere una visione più ampia. Se un messaggio del genere può essere efficace a Bologna e magari a Firenze, lo stesso non vale per altre località italiane che vivono contesti molto differenti.
Combattere il populismo di Salvini alla radice
Perché Salvini prende così tanti voti? Secondo Santori e il manifesto delle sardine la colpa è della propaganda e delle fake news diffuse in rete. Ma mettere in dubbio l’intelligenza degli elettori per giustificare i propri fallimenti è l’ultimo rifugio del politico mediocre. Che senso ha quindi fermarsi qui e rifiutarsi di analizzare le cose con maggior attenzione? Le Sardine non hanno mai governato l’Italia, no?
Che piaccia o no, infatti, la Lega di Salvini è in testa ai sondaggi perché viene identificata da molti come il partito degli oppressi, l’unico a trattare, pur banalizzandole, le tematiche più vicine al cittadino comune. La crisi economica e le politiche ad essa succedute hanno reso questa crisi infinita e i costi sociali di tali scelte sono paragonabili soltanto a quelli di un conflitto militare. Non sembra quindi tanto astrusa l’idea di cambiare le regole europee, finora seguite con un’osservanza al limite del fondamentalismo religioso. Da comprendere (che non significa giustificare) è anche l’atteggiamento di chiusura nei confronti degli immigrati. La questione è stata gestita senza pensare troppo al dare un posto nella società ai nuovi arrivati e, come è risaputo, l’esclusione sociale non porta mai niente di buono.
Se le cose quindi andassero alla grande per tutti, ora i leghisti sarebbero ancora nelle loro valli a discutere di Padania, Celti e terroni. Purtroppo però nel paese c’è un disagio enorme e se non vogliamo che ciò apra la strada all’autoritarismo dobbiamo riuscire a parlare a queste persone. Altrimenti il rischio è quello di sembrare contestatori ad personam, come quelli che hanno lasciato via libera per vent’anni a Berlusconi, o peggio, difensori dello status quo. Noi non possiamo permetterlo. Serve il coraggio di immaginare un mondo diverso. Non abbiamo nulla da difendere, solo tutto da chiedere.
Federico Speme