Il ritrovo era in piazza XX Settembre. Mi sono svegliato presto e ho infilato nello zaino la macchina fotografica e un microfono: come le altre volte dovevo andare sul posto mezz’ora prima dell’inizio del Friday For Future, per coordinare l’arrivo dei cortei scolastici. A metà di via Indipendenza, però, ho capito che quel venerdì – il 29 novembre – qualcosa era diverso: non riuscivo ancora a sentire i cori. Che cosa non andava? Semplicemente, a mezz’ora dall’inizio della manifestazione, c’era a malapena una cinquantina di persone. Un gruppo sparpagliato che, come un esercito, bloccava la strada. In preda al panico mi sono precipitato dagli altri organizzatori, e abbiamo chiamato uno a uno tutti i rappresentanti delle scuole che aderivano alla mobilitazione.
“Si pronto, ciao Tommaso. Mi spiace, ma noi del Fermi siamo solo un centinaio”
“Noi dell’Arcangeli stiamo per arrivare. Siamo una cinquantina”
“Quelli del Minghetti arrivano sparsi, non sappiamo quanti siano”
In quel momento ho avuto paura. Paura che i giornali e la televisione potessero deridere il nostro corteo, paura che la nostra causa risultasse ridicola persino ai manifestanti. Alle 9:30, al punto di ritrovo c’erano forse 2.000 persone; ma il corteo doveva iniziare. Gli organizzatori hanno spronato la folla, e cullati da gridi di protesta ormai familiari abbiamo cominciato a marciare verso i viali. Amo l’inizio delle manifestazioni, quando le gambe sono ancora riposate e gli oratori non si ripetono. È in questa fase che si rompe l’imbarazzo: coperti da uno striscione e scaldati dai ragazzi vicini, qualsiasi frase pronuncerete risuonerà amplificata nella voce formidabile del coro, incitando non solo chi la ascolta, ma anche chi la intona, e seducendo chiunque.
Arriviamo a metà del percorso durante un bislacco intervento su come i fogli protocollo, dal momento che sono piegati a metà, sprechino il doppio della carta. A Porta San Felice la musica si ferma, e con essa la marcia verde. Qualcuno prende il microfono per arringare la folla. Mentre abbasso lo sguardo per riporre la fotocamera nello zaino, noto che d’improvviso è calato il silenzio. Quando rialzo la testa ammiro uno degli spettacoli più strani a cui abbia mai assistito: ai miei piedi ci sono 2.000 persone che fingono di essere morte, sdraiate sul cemento in segno di protesta.
Questa è l’immagine perfetta per rappresentare ciò che spinge i ragazzi a saltare scuola il venerdì, di tanto in tanto: la possibilità di rimanere per sempre al freddo sul cemento in mezzo a una enorme massa di gente; o meglio, l’avvicinarsi di un’estinzione sempre più vicina, più scomoda e più fredda.
Il corteo ha poi ripreso il suo corso, e abbiamo risalito lentamente le vie del centro fino a Piazza Maggiore. Quando siamo arrivati il gruppo era già sciolto e la città tornava al suo stadio naturale, gli spiriti si raffreddavano e le auto ad alte emissioni tornavano a circolare.
In fondo non siamo stati ridicoli. Sì, eravamo pochi, ma per quattro ore buone abbiamo dato fastidio a tutti bloccando le strade più importanti. Per quattro ore buone tutti hanno saputo chi eravamo, cosa facevamo e soprattutto perché manifestavamo. Prima o poi, a forza di arrivare tardi a lavoro, ci dovranno pure ascoltare.
Rassegna sul “Friday For Future” a cura di Maria Luce Neri