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I morsi avari dellInvidia

Invidia

Quando Dio chiese a Caino dove fosse Abele, questi rispose: “Sono forse il custode di mio fratello?”. No, certamente non lo era. Anche perché il corpo di Abele giaceva nella polvere, il cranio fracassato da una pietra.


La parola

Il Genesi sembra suggerire che l’uomo non solo si compiaccia del male, ma si dispiaccia del successo dell’altro, anzi lo aborrisca, lo odi. Chiamiamo questa perversione invidia. Propriamente è il “guardare storto”, lo sguardo tralignato verso le fortune dell’altro, quasi l’animo bramasse di ghermire la felicità di tutto il genere umano per sprofondarla con sé nel baratro. La vista del bene è nefasta a chi invidia; egli aspira a precipitare tutti nella sua condizione. Solo nella disfatta generale dell’umanità un invidioso potrebbe gioire, vincitore tra i perdenti.

I volti dell’invidia

Invidiare è la constatazione di una mancanza: l’individuo, scrutando il mondo, scopre qualcosa che egli non possiede; da questa presa di coscienza possono poi nascere due reazioni opposte, due ritratti consegnati da una civiltà classica che ha dipinto questo sentimento ora come un male da cui fuggire, ora come la necessaria tempra del vero uomo. Da una parte troviamo lo φθόνος (fthònos), la malevolenza divina o umana – che passa sempre, come l’amore, dagli occhi – all’origine di un evento propriamente tragico. Dall’altra vi è lo ζῆλος (zèlos), il desiderio di prendere parte al bene altrui: in italiano diremmo lo spirito di emulazione, una sorta di rivalità generatrice anziché esiziale. Tra favorevoli e contrari l’invidia tesse la sua tela polisemica, abbracciando l’una e l’altra fazione, rinchiudendo dentro un solo termine una duplice natura.

L’uomo antico, in un contesto sociale dove l’unica possibilità di “salvezza” consiste nel più grande acquisto di virtù, consapevole di essere in balia del Fato e della sua precarietà, ha come unico riscatto la fama che, dopo la morte, ne tramanderà il ricordo ai posteri. Per questa ragione le società classiche sono essenzialmente agonali: il compagno è anzitutto un rivale in prestanza fisica e intellettuale, in valore e in generosità. Questa invidia nasce dall’irrepetibilità della vita, dal comandamento irrinunciabile di eccellere, prima della morte che annulla ogni cosa. Per farsi strada nella turba è necessario calpestare i meno adatti. L’occasione è una sola, e non va sprecata.

Dal cristianesimo al capitalismo moderno

Quando l’ottica cristiana irrompe in Occidente, contesta e capovolge il modello etico dei superlativi assoluti: Cristo non è venuto per i migliori e per i più giusti, ma per “i pubblicani, le prostitute e i peccatori”. Il Cristianesimo propone una nuova forma d’amore, la ἀγάπη (agàpe) spirituale e illimitata, gratuita.

L’uomo, umile creatura di Dio, deve soccorrere il fratello in difficoltà e gioire della sua felicità, riconoscendo in ogni fatto un imperscrutabile – ma nondimeno prodigioso – segno della potenza divina. Da questa nuova religione, antropocentrica e non virocentrica, viene espulsa ogni forma di invidia: solo chi si umilia sarà esaltato, i superbi saranno perduti.

Ma quali sono gli oggetti del desiderio di questa perversa bramosia? Si tratta quasi sempre di meschinità, di bassezze senza alcuna ragione; spesso i più implacabili odi non hanno fondamenta più solide di un bell’aspetto, di una buona stella o di un po’ di notorietà. Anche nelle ricchezze l’invidia trova terreno fertile.

Se il traguardo cui si anela sono le sostanze, ecco che questo sentimento mostra la sua faccia più ambigua, quella cinetica che spinge l’uomo e muove il mondo. In effetti, che cos’è l’ascesa economica del modello materialista e liberista se non la riproposizione, con le dovute differenze, di quel mondo dove l’individuo, ora il borghese, è costretto a sopraffare gli altri per l’accrescimento del proprio valore, cioè il capitale?

In questo senso l’invidia dell’Europa ha conquistato, sotto ogni aspetto, il mondo intero. Un simile atteggiamento però può uccidere l’umanità che è in noi. La spasmodica ricerca della supremazia può consumare il cuore fino allo stremo. Il sangue allora si trasforma in bile, muta la sua forma in veleno che infetta e inquina ogni cosa, senza distinzioni. È contro questa inutile furia che i critici del modello capitalista si accaniscono: perché vivere in un mondo che promuove, anziché la cooperazione, il sopruso, e che concepisce la persona come potenziale competitivo?

Il prezzo del benessere

Ovviamente la risposta non è semplice. L’invidia-emulazione non è soltanto un nemico da osteggiare, perché tutto il benessere di cui usufruiamo senza quasi accorgercene è il frutto di questo incredibile movimento. L’ascesa sociale è spesso dettata da quella vaga bramosia dell’ignoto che altro non è che invidia più o meno rancorosa, più o meno palese, verso i ricchi e i potenti.

Sarebbe semplice dire che la verità sta nel mezzo, che basterebbe un accomodamento; ma le società non possono reggersi sui compromessi, tantomeno su tentativi impossibili di mediazione tra due poli ugualmente egoisti come individuo e sistema.

In verità molte filosofie hanno cercato di sconfiggere questo meccanismo apparentemente inarrestabile. Il rimedio proposto è sempre stato lo stesso: la cessazione o attenuazione del desiderio, che è l’impulso primo di ogni invidia, della smania incontenibile di conseguire gli obiettivi qui e ora, di avere tutto e subito senza badare al costo. Ma se, come già Italo Svevo ebbe a scrivere, la vita attuale è inquinata alle radici, come è possibile sottrarsi a questo circolo?

La forza di scegliere: invidia o amore?

Forse dovremmo solo cominciare ad amare di più. Forse dovremmo credere di nuovo in un sentimento gratuito, spontaneo, che faccia scorgere nell’altro non un concorrente, ma un amico, un fratello. Anziché concentrarci su quante cose sono fuori di noi, forse dovremmo guardare dentro noi stessi e osservare la metà piena di quel bicchiere. Quante cose diamo per scontate senza nemmeno accorgercene?

Avremo sempre lo sguardo da Caino e la pietra in una mano e sempre davanti a noi ci sarà un Abele pronto a essere colpito a morte. Che cosa faremo? Vibreremo il colpo oppure deporremo le armi e, sciogliendoci in pianto, abbracceremo il fratello? Rinnegheremo l’invidia o la accoglieremo nel nostro cuore? Solo a noi tocca scegliere. Preferire il prezzo gratuito dell’amore, o il costo distruttivo dell’odio.

Francesco Faccioli

(In copertina Keyur Nandaniya da Unsplash)

Sull'autore

Nato nel 2001, vivo in montagna – e vista l'aria che tira non ho fretta di trasferirmi. Con ogni probabilità sono l'unico studente di Lettere Antiche ad apprezzare sia Tha Supreme che Beethoven. Da fuori posso sembrare burbero, ma in realtà sono il più buono (e modesto) della redazione.
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