
È uno scontro epico quello che si respira nelle sequenze iniziali di Doctor Sleep, uno scontro prevedibile e allo stesso tempo assolutamente imprevisto: da una parte Stephen King, uno dei più apprezzati scrittori contemporanei, autore di capolavori come It e L’ombra dello scorpione; e dall’altra Stanley Kubrick, regista di quella che fu la trasposizione cinematografica di Shining, del quale questo film ambisce a essere il seguito. La loro contesa, talvolta evidente e talvolta sottesa alla narrazione stessa, farà da sfondo all’intera vicenda e di fatto ne plasmerà ogni scena.
Trentanove anni dopo…
In mezzo a questi due giganti – stretto tra l’ombra proiettata dal Maestro e il fantasma ancora troppo presente di Kubrick – c’è Mike Flanagan, chiamato a dirigere il sequel di una delle opere più visionarie della storia del cinema. Fin dall’inizio le premesse erano buone: un budget quasi tre volte superiore rispetto a quello del primo film (45 milioni di dollari contro i 19 di Shining), degli effetti speciali che ormai hanno di gran lunga superato le possibilità del 1980 e una lunga esperienza nel mondo del cinema horror, maturata in vent’anni di onorata carriera con all’attivo perle come Somnia, Oculus e – sempre tratto da un romanzo di King – Il gioco di Gerald.
Eppure, Flanagan resta sempre in mezzo alle presenze troppo ingombranti di King e Kubrick senza riuscire a imprimere all’opera qualcosa di veramente suo e senza riuscire a decidere, effettivamente, da che parte stare. Nello scontro tra le loro personalità e le loro visioni di Shining e di conseguenza del mondo, si rivelano le dimensioni di successo e insuccesso che caratterizzano questo film.
Sono passati trentanove anni, il piccolo Danny ha lasciato spazio al “grande Dan” (Ewan McGregor), i fantasmi del passato a quelli del presente, e nel frattempo troppe cose sono cambiate. Dopo aver cercato inutilmente di soffocare nell’alcol i ricordi dell’Overlook Hotel, Dan decide di trasferirsi a Frazier, nel New Hampshire, dove entra in un gruppo di Alcolisti Anonimi e inizia a lavorare nell’ospizio Helen Rivington. Qui entrerà in contatto nuovamente con la morte e, grazie allo shining, affiancherà i pazienti durante le loro ultime ore di vita ricevendo l’appellativo di Doctor Sleep.
Verso l’immortalità
È in questo affresco – così apparentemente normale e così ostentatamente kinghiano – che vengono introdotti due nuovi personaggi: Rose Cilindro e Abra. La prima, interpretata da una magistrale Rebecca Ferguson, a capo di una compagnia di “demoni vuoti” chiamata Vero Nodo, un gruppo di non-morti simili a vampiri che uccidono persone dotate di shining e si nutrono del loro potere per vivere in eterno. La loro quasi-immortalità che dipende dalla morte di altre persone rappresenta alla perfezione l’idea falsata di importanza che danno alla vita.
E dall’altra parte, Abra (Kyliegh Curran), la coprotagonista del film, una bambina dotata di una concentrazione estremamente alta di “luccicanza“, che osserva uno degli omicidi compiuti dal gruppo come “spettatrice esterna” e che diventa l’ossessione di Rose. Si configura così, come in tutte le più riuscite trame di Stephen King, un grandioso scontro tra bene e male: da un lato della barricata i membri del Vero Nodo, capitanati da Rose Cilindro e Papà Corvo, alla disperata ricerca di qualcuno di cui nutrirsi per sopravvivere; e dall’altro Abra e Dan, al suo fianco in una nuova battaglia.

La resa dei conti, ovviamente, non poteva che giocarsi in territorio amico, tra le stanze di quell’Overlook Hotel che ormai è diventato una leggenda, dove si chiuderanno tutti i cerchi aperti nel primo film, dove Danny tornerà bambino ad affrontare le sue paure più recondite, dove lo sguardo di Jack Torrance cristallizzerà attimi di terrore e dove, ancora una volta, bisognerà scavare nel profondo degli animi inquieti degli antieroi protagonisti per giungere a una conclusione. Ovvia, naturale e allo stesso tempo sorprendente.
L’eredità di Shining
Nessuno si aspettava troppo da questa pellicola. Ed è proprio nella dimensione di questa non-attesa che il film riesce a funzionare, a trovare una sua identità e la sua esistenza. Tutti erano a conoscenza dell’ambizione di Doctor Sleep, tutti sapevano che avrebbe dovuto fare i conti con un prequel ormai diventato un canone e tutti erano certi che non sarebbe mai riuscito a superarlo – cosa che non ha neanche provato a fare (giustamente, verrebbe da dire).
Si tratta tutto sommato di un film senza infamia e senza lode, che non aggiunge niente a quello che già si sapeva, ma che in fin dei conti procede bene. Non annoia, coinvolge, ha un buon ritmo, funziona dove deve funzionare e spiega quello che deve spiegare e che era rimasto in sospeso nel precedente. “Un’appendice a Shining“, qualcuno lo ha definito. Una buona appendice, oserei dire. E non è poco. Soprattutto nel cinema di oggi.
Davide Lamandini
(In copertina e nell’articolo scene tratte da Doctor Sleep, di Mike Flanagan)