Anna Passanese, tramite l’ultimo romanzo di Ian McEwan “Macchine come me”, analizza il “senso di vuoto” che permea l’uomo contemporaneo.
Qual è il significato di essere umani?
Quando diciamo a qualcuno “sei umano” trasmettiamo una serie di idee ben più profonda di quel che pensiamo, lì sul momento. Vogliamo dire “sei imperfetto, è normale che sbagli”, oppure “le emozioni che stai provando sono comprensibili”, vogliamo dire “tu capisci come si sentono gli altri, perché sei come loro”. Perché sei come me. Non capiamo bene cosa voglia dire “essere umani”, in effetti, ma sappiamo che è qualcosa che ci rende tutti simili.
Adam & Eve
Immaginiamo ora che una macchina, un androide in particolare, si ponga la stessa domanda. Ecco che veniamo catapultati in un 1982 alternativo, in cui il celebre matematico Alan Turing non si è mai suicidato, anzi, ha potuto continuare i suoi studi, e in questo modo è riuscito a sviluppare la prima forma di intelligenza artificiale. Il suo algoritmo viene installato su dodici “Adam” e tredici “Eve”, robot altamente sofisticati che vengono subito messi in commercio. E il protagonista, Charlie, con l’eredità ottenuta dalla madre, si affretta ad acquistarne uno.
Adam si sveglia, e diventa consapevole di se stesso e del mondo, in un unico istante. Ha accesso a qualsiasi informazione in rete, nel momento in cui “nasce” conosce già tutto quello che c’è da sapere su di lui e sull’umanità. Adam osserva l’ambiente che lo circonda, meravigliato; si appassiona alla letteratura e all’arte, e guarda con un misto di curiosità e compassione gli esseri umani, di cui dovrebbe rappresentare la versione migliore. Sa di essere superiore a loro, ma non li disprezza. È consapevole dei loro difetti, e della sua impotenza di fronte al male che causano, ma non si dispera, e affronta la sua esistenza con una superba rassegnazione.
Un mondo malato
Gli altri androidi, invece, si tolgono la vita, uno dopo l’altro. Due Eve che vivevano da recluse presso uno sceicco a Riad, un Adam che doveva supervisionare il disboscamento di una foresta, ma anche una Eve che faceva compagnia ad un’anziana signora. E tutto questo perché, come Turing stesso spiega a Charlie, “abbiamo creato una macchina intelligente e consapevole e l’abbiamo gettata nel nostro mondo imperfetto. Ideata in base ai principi generali della ragione, ben disposta nei confronti dell’altro, una mente di questo tipo precipita ben presto dentro una bufera di contraddizioni. Noi ci siamo abituati […] ma una mente artificiale non ha le stesse difese”.
Ciò che tanto tormenta queste macchine va oltre il dolore del mondo, va al di là persino dell’impotenza di fronte all’ingiustizia. È la percezione di esistere come individui dentro un mondo “malato”, che finirà inevitabilmente per contagiare anche loro. Non solo non possono cambiare le cose, ma non potranno neppure estraniarsi da questa realtà “scadente”, perché solo esistendo ne fanno parte. È un’autocoscienza allo stesso tempo “individuale” e “collettiva”, ed è quello che ci rende umani.
Senso di vuoto
Per proteggersi, gli esseri umani imparano fin da bambini a rinchiudersi sotto una coltre di monotonia quotidiana, di indifferenza, in cui si perde la cognizione del mondo, o di se stessi, ma si sopravvive. È quello che sperimenta Charlie, che non ha mai trovato uno scopo vero e proprio nella vita, non lavora, e guadagna giocando in borsa. Passa le sue giornate tra le cifre dei titoli azionari e le passeggiate nel parco. E anche se la sua routine è spezzata dagli incontri con la donna amata, Miranda, lui non può fare a meno di percepire questo senso di vuoto, di noia, che abita il suo animo, come quello di tutte le altre persone attorno a lui.
Un automa invece non ha il tempo di abituarsi al mondo, ad essere umano. Si sveglia, e tutto quel che può fare è accettare di esistere qui e ora, oppure no. Sa di essere in qualche modo diverso dalle altre persone, ma non abbastanza da potersi allontanare dalla loro realtà. E questa è la sua condanna: l’impotenza di fronte alla propria umanità.
Quello che stiamo diventando
Ma allora cosa differenzia il nostro Adam, il co-protagonista, da tutti i suoi simili? A quanto pare, il fatto di essere innamorato della compagna di Charlie, Miranda. Secondo Turing, è il primo a cui succede di innamorarsi. È piuttosto bizzarro che a salvare Adam sia proprio un aspetto della sua umanità. Bizzarro è anche il fatto che, nonostante questo, né Charlie né Miranda lo considerino mai umano. Forse perché ritenere simile a noi qualcosa di artificiale equivarrebbe ad ammettere che non siamo poi tanto speciali come creature, e che la nostra intelligenza tutto sommato è “facile” da replicare. Creare una mente artificiale sarebbe la nostra più grande sconfitta.
Impotenza, noia, sconfitta, rassegnazione, ed un contesto fin troppo familiare. Guardiamo questo 1982 in cui la tecnologia ha fatto passi da gigante, in cui il benessere è tutto sommato diffuso e in cui la vita ha perso la sua sfumatura passionale, per lasciar spazio ad una placida, monotona, routine giornaliera. Lo guardiamo, e vediamo la nostra epoca, trascinata nel passato da una trama meccanica, che ha il solo scopo di farci analizzare questi anni che stiamo vivendo come se fossero già storia. Guardiamo Adam, e vediamo il nostro giudice, che ci siamo creati da soli. Guardiamo Charlie e vediamo noi stessi, o quel che ne resta. Infine, guardiamo questi automi, queste macchine come noi, e vediamo quello che stiamo diventando: un esoscheletro di metallo e pelle sintetica, che non fa altro che chiedersi “che cosa significava essere umani?”
Anna Passanese
(In copertina Sasha Freemind da Unsplash)
Per approfondire:
Link al sito ufficiale di Einaudi.