La ricerca dell’identità, confusa e perduta nelle nebbie del postmodernismo, appare oggi come uno dei più grandi drammi dell’uomo contemporaneo. E non solo di quest’ultimo. Ormai da millenni ci affanniamo dietro categorie e schemi, all’inseguimento di un posto in cui collocarci. Il breve arco della vita, dal momento della nascita a quello della dissoluzione, sembra ruotare intorno a questa ricerca. Una ricerca non univoca né indirizzata: si cerca un’identità o l’identità? Dove la si può trovare? È connaturata in ogni essere umano o è un artificio costruito progressivamente, giorno dopo giorno? Di certo è un bisogno stringente, necessario alla definizione del sé.
L’etimologia latina identitas, –atis deriva dal pronome idem, “stesso, medesimo”, composto di is “egli, quello” con l’elemento –dem che esprime in genere “identità”, cita il vocabolario online Treccani. Proprio in questa medesimezza, nella conservazione senza mutamenti, nella coscienza che un individuo ha del suo permanere lo stesso attraverso il tempo e attraverso le fratture dell’esperienza risiede il significato oggi attribuibile al termine identità.
Tuttavia, il discorso non si esaurisce qua: la ricerca sembra estendersi, abbracciare i campi dell’esistenza e del significato. Si tenta continuamente di determinare chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo. Si rincorre un senso; siamo tutti, con maggiore o minor consapevolezza, individualmente o in una collettività, “il vecchierel bianco, infermo, mezzo vestito e scalzo” del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, che “corre via, corre, anela, varca torrenti e stagni, cade, risorge, e più e più s’affretta, senza posa o ristoro, lacero, sanguinoso; infin ch’arriva colà dove la via e dove il tanto affaticar fu volto”. Tutti sembriamo dirigerci verso quel punto terminale, quel momento di disvelazione al quale agogniamo per tutta la vita.
Punti di riferimento
Oggi, si parla di identità soprattutto nella dimensione di perdita, di ciò che non riusciamo più a trovare. Dunque, si cerca quel qualcosa che presumibilmente prima si possedeva, ma su cui non ci si interrogava proprio perché non se ne sentiva la mancanza. La storia della riflessione umana sul concetto di identità ci riporta indietro di millenni, fino al mondo classico degli eroi greco-romani. I grandi poemi epici dell’antichità sono il paradigma perfetto del pensiero dell’epoca: Achille sa di essere un semidio, un uomo nato per combattere, ricoprirsi di onori ed essere glorificato; Ettore sa di essere destinato a morire, a sacrificarsi per la propria patria e la propria casa; Odisseo (Foto 1) sa che un intero mondo di conoscenze è in attesa del suo arrivo, che la sua rotta è il mare aperto, senza orizzonti.
L’identità sta nel destino. Le qualità e i caratteri di ogni essere umano dell’epoca derivano da casuali scelte divine. Soprattutto nel mondo della Grecia classica, governato dalla Τύχη (tyche), sono il ruolo sociale e le relazioni inter-gerarchiche a determinare le individualità. Di certo per la neonata democrazia delle prime città-stato l’idea di un’attribuzione di identità connaturata e non marcatamente influenzabile dall’ambiente è funzionale al mantenimento di una società organizzata. Tuttavia, il sistema cittadino non impone un modello a caste invalicabili: Enea è il primo eroe a dividersi tra la dimensione familiare e quella sociopolitica, tra l’identità di eroe greco e quella di profugo.
Sono sempre le credenze di una società e una peculiare visione del mondo a definire il concetto di identità anche in età tardoromanica e medievale: l’ascetismo e la spiritualità cristiana definiscono un’identità pura, un’opinione certa del mondo che si esaurisce nella devozione al Dio. Tra il XVI e il XVII secolo il crollo delle certezze metafisiche e il passaggio all’età moderna segnano il sovvertimento della figura dell’eroe, dei ruoli sociali e dell’epoca della sicurezza. Il cavaliere Orlando (foto 2), da splendente e superiore a innamorato, tradito e infine folle, magnifica l’idea di un nuovo eroe, la cui identità sfaccettata si rivela solo sotto il nome di quella pazzia “il cui segno più espresso” è “per altri voler, perder se stesso”.
Le facce, le identità dei personaggi si moltiplicano anche nelle tragedie shakespeariane: Amleto (foto 3), personificazione del dubbio, uomo contemporaneo pensoso, diviso, contraddittorio ed incapace di agire che “se nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino”, si sostituirebbe all’uomo alimentato da grandi valori, all’eroe classico greco; Bruto, combattuto tra un affetto quasi paterno e una bramosia di potere irrefrenabile.
Tutto ciò fino al ‘900, secolo di esplosione dell’indagine della psiche umana, attraverso cui si ipotizza una realtà soggettiva, già fantasmatica e virtuale, e di incertezze crescenti. I confini di definizione dell’identità si nebulizzano, diventano sempre più labili, soprattutto sotto la spinta del pensiero pirandelliano: secondo il drammaturgo di Girgenti, ognuno di noi indossa quotidianamente molteplici maschere.
Il naso di Vitangelo Moscarda, che suscita “il pensiero ch’io non ero per gli altri quel che finora, dentro di me, m’ero figurato d’essere”; la lanterninosofia di Anselmo Paleari che offre l’idea interiore del mondo esterno come unico metro di valutazione; Silia, che si “vede vivere” accanto a Leone Gala, attraverso “questo maledetto specchio, che sono gli occhi degli altri, e i nostri stessi, quando non ci servono per guardare gli altri, ma per vederci, come si conviene vivere… come dobbiamo vivere…”; le duplici personalità dei Sei personaggi in cerca d’autore. Tutto invoca la polivalenza dell’identità, la mancanza di una possibilità certa di determinazione.
Punti di vista
Ma che sta accadendo oggi? Perché l’identità sembra più in crisi rispetto all’epoca di Vitangelo Moscarda? Probabilmente, perché il nostro XXI secolo è il secolo del Web. La data di nascita del World Wide Web viene comunemente indicata nel 6 agosto 1991, giorno in cui l’informatico inglese Tim Berners-Lee pubblicò il primo sito online. Occorsero diciassette giorni perché la pagina venisse visitata: il primo utente esterno al centro di ricerca la raggiunse il 23 agosto successivo.
Oggi, le sempre più capillari piattaforme di connessione e l’apparente riduzione di distanze tanto fisiche quanto mentali ci permettono di figurarci una vera e propria rete, fatta di nodi, link e grovigli. Un mondo di byte che procede di pari passo con la globalizzazione e la crescita demografica, con l’assottigliamento delle differenze culturali e la crescente uniformità di pensiero. In questa molteplicità di connessioni l’identità del singolo sembra perdersi in una folla di voci e visi. Pare impossibile trovare un proprio spazio, un posto in cui essere unici. La rivoluzione digitale e la pervasività delle nuove tecnologie hanno modificato la percezione non solo della realtà in cui viviamo, ma anche l’essenza della nostra unicità: la nostra identità.
Mentre il sociologo polacco Zygmunt Bauman sostiene la crescente individualizzazione delle esperienze, la paradossale solitudine del singolo in una realtà sempre più inter-connessa e globale, la liquidità delle relazioni e i sempre più marcati smarrimento e isolamento derivanti dal crollo di ogni certezza materiale; la statunitense Sherry Turkle vede i computer come parte agente nelle nostre vite sociali e psicologiche, e sostiene l’idea di un uomo virtuale che vive in un luogo “tecno-immaginario” dove perde la propria fissità e fisicità per esprimere, libero dai vincoli del corpo, i suoi molteplici Sé, in particolare il suo Cyber-Sé.
In rete, le dimensioni parallele del reale e del virtuale si intrecciano insieme ai loro molteplici volti, formando un Sé ancora più fluido di quello proposto da Pirandello, frutto di un processo dinamico, di costruzione e distruzione continua, fatto di mutamenti istantanei e instabilità. Tutto l’opposto della salda concretezza di Omero. Lo scrittore Barton Kunstler evidenzia come l’idea di identità umana si sviluppi in relazione al progresso del contesto socioculturale:
Le nostre nozioni sullo statuto dell’essere uomo sono cambiate nel corso dei secoli e continuano a cambiare, in particolare con le grandi trasformazioni attuali nelle nostre società e nelle nostre tecnologie.
Barton Kunstler
Punti deboli e punti di forza
La fluidità delle identità contemporanee, a cavallo tra fisico e virtuale, implica un cambiamento di paradigma e schemi mentali e un’attenta valutazione di lati positivi e negativi, o, se vogliamo, costruttivi e dissolventi. Il punto di svolta è la nascita dei social network. Per essere più precisi, la nascita di “servizi informatici online che permettono la realizzazione di reti sociali virtuali”. La storia dei social network inizia nell’ormai lontano 1997, quando lo statunitense Andrew Weinreich lancia il sito SixDegrees.com, con l’obiettivo di creare nuove relazioni interpersonali superando i “sei gradi di separazione” di Milgram. Da allora, i servizi si sono moltiplicati e diffusi capillarmente.
Nel 2019, quasi tutti abbiamo ormai un’identità virtuale o un avatar, su almeno uno dei social network (foto 6) più popolari del momento. Lo spazio sociale telematico rappresenta una duplice possibilità: da un lato, può essere occasione di fuga dalla realtà fisica e di mascheramento del Sé reale, può offrire un rifugio, un nascondiglio in cui alzare barriere verso il mondo esterno; dall’altro, può diventare la fuga verso qualcosa di nuovo, la ricerca di un’ulteriore possibilità di espressione e rappresentazione del Sé, che non neghi la realtà fisica ma, anzi, vi si sommi.
In ogni caso, si parla sempre di mascherare e dissimulare, seppur con mezzi e fini diversi. Questo tipo di mascheramento (foto 4), se vogliamo simile a quello già proposto da Pirandello – almeno nelle intenzioni, se non nella forma -, apre la strada ad una libertà di opinione e azione priva – almeno all’apparenza – di conseguenze concrete. Inoltre, può permettere l’abbattimento di muri e blocchi mentali, creando vicinanza, connessione e scambio culturale.
Al tempo stesso, come ben evidenzia Bauman con le sue teorie di modernità liquida, il crescente utilizzo delle reti sociali virtuali e il nascondersi dietro avatar immateriali portano alla mancanza di contatto fisico e dunque ad un impoverimento delle relazioni sociali, sempre più superficiali e instabili. Inoltre, nell’abisso della rete, privo di limiti, crescono la paura e l’isolamento (foto 5), fino a portare, nei casi più estremi, a vere e proprie patologie. Tra i “disordini psichiatrici legati all’abuso di internet”, inseriti a pieno titolo nel Diagnostic and statical Manual of Mental disorders nel maggio 2013, si identificano cyber-sexual addiction (legato alla pornografia), net-compulsion (gioco d’azzardo e shopping), information overload (ricerca spasmodica di informazioni), cyber-relation addiction (abuso di social network) e computer addiction (utilizzo eccessivo di giochi online).
Oltre alla perdita della capacità di distinzione tra ciò che è reale e ciò che non lo è. Un quadro terrificante, sembrerebbe. A meno che tutta questa confusione mentale non sia solo sintomo di una forma positiva di pazzia, come quella di Orlando: una pazzia rivelatrice, che includerebbe il mondo dei social e delle identità virtuali nella sfera della realtà e metterebbe in dubbio, ancora una volta, le certezze sensoriali dell’esperienza.
4. Maschere. 5. Solitudine. 6. Isolamento del mondo digitale.
Punti interrogativi
Molte sono le domande da porsi, oggi, tanto sulla ricerca spasmodica di un’identità, quanto sul contesto in cui si cerca di trovarla. Fino a che punto possiamo spingerci e fino a che punto c’è davvero bisogno di una propria identità? Da cosa nasce questo bisogno e come si può soddisfare? Perché non accontentarsi di una molteplicità di volti? Verso quale deriva ci porteranno i cambiamenti attuali?
Reale e virtuale sono o non sono in contrapposizione, come il bene e il male, il positivo e il pericoloso, il sicuro e l’incerto? Sono forse due tipi di esperienze, di modellizzazioni, di conoscenze di realtà diverse? Realtà virtuale e reale sono modi nuovi, che conviveranno, di esperire il nostro corpo, la nostra mente, la nostra sfera emotiva conscia e inconscia ed il nostro rapporto con gli altri? C’è un’aggiunta o una perdita nell’esperienza di vita umana?
Il Punto della situazione
Dunque, se in passato l’identità era una sorta di possesso, di qualità innata o determinata da fattori esterni poco modificabili, quali azione divina, ruolo sociale, o destino; oggi l’identità è fluida, molteplice e polivoca, frutto di un processo dinamico di costruzione, priva di confini definibili e pervasa dal mondo del virtuale. Tuttavia, dal ‘900 ad oggi, per quanto contesti e mezzi siano notevolmente cambiati, le idee sembrano essere le stesse.
Non mi conoscevo affatto, non avevo per me alcuna realtà mia propria, ero in uno stato come di illusione continua, quasi fluido, malleabile; mi conoscevano gli altri, ciascuno a suo modo, secondo la realtà che m’avevano data; cioè vedevano in me ciascuno un Moscarda che non ero io non essendo io propriamente nessuno per me: tanti Moscarda quanti essi erano.
Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila
Queste parole, del Vitangelo Moscarda di Uno, nessuno e centomila, potrebbero essere pronunciate da un qualsiasi adolescente del 2019, o con più forza da un cyber-relation o computer addicted. Quella realtà che “non ci fu data e non c’è, ma dobbiamo farcela noi, se vogliamo essere: e non sarà mai una per tutti, una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile” sembra avere tanto in comune con la realtà tecno-immaginaria del nostro Web. E quel morire e rinascere “ogni attimo nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori” sembra proprio essere ciò che accade all’uomo della modernità liquida, galleggiante in un oceano di incertezza.
E infine, il fatto che “gli altri vedevano in me uno che non ero io quale mi conoscevo; uno che essi soltanto potevano conoscere guardandomi da fuori con occhi che non erano i miei e che mi davano un aspetto destinato a restarmi sempre estraneo, pur essendo in me, pur essendo il mio per loro (un “mio” dunque che non era per me!); una vita nella quale, pur essendo la mia per loro, io non potevo penetrare” non è proprio ciò che succede quando reale e virtuale si confondono o si scontrano?
Non è ciò che prova un qualsiasi giocatore di MUD (multi-user dungeon), videogiochi di ruolo in cui si deve interagire con un mondo di stanze e altri utenti celati dietro uno schermo, cambiando identità ad ogni istante? L’identità, ora come allora, resta un ingombrante oggetto di indagine e un quesito dalle risposte incerte.
Teresa Caini
Il Punto. Un’idea originale di Davide Lamandini. Progetto grafico di Riccardo Armari. Consulenza editoriale di Clarice Agostini, Iacopo Brini, Elettra Domini e Francesco Faccioli.