Il 20 luglio è stato il cinquantesimo anniversario dell’allunaggio, l’Italia e tutto il mondo intero erano intenti a postare tweet e vedere documentari sull’argomento, dimenticandosi però che lo stesso giorno è anche il diciottesimo anniversario della morte di Carlo Giuliani, manifestante che prese parte alle proteste contro il G8 di Genova, durante le quali venne ucciso da un carabiniere. Non voglio ora addentrarmi in questioni troppo “spinose”; mi limiterò semplicemente a descrivere i fatti successivi alla morte di Carlo Giuliani.
L’irruzione della polizia all’interno della scuola Diaz, occupata dai manifestanti, avvenne pochi minuti prima della mezzanotte, ma bisogna tornare indietro di qualche ora per capire chi ha dato il via a quello che poi si è trasformato in un massacro.
A causa dell’indignazione generale dovuta alla morte del manifestante avvenuta il giorno prima e del sospetto che la Diaz fosse un covo in cui si rifugiavano alcuni black block, delle volanti della polizia erano passate più volte davanti all’immobile che era stato dato dalla Provincia a giornalisti e manifestanti, e questi ultimi avevano reagito colpendo le macchine e urlando “assassini” e altri insulti. Parole e azioni terribili, a detta delle forze dell’ordine, che decisero di mettere in pratica il 41 tubs, protocollo specifico che non prevede la presenza di un magistrato per dare inizio a un’irruzione ma solo la comunicazione con esso, nel caso in cui avvenga un’aggressione e ci siano un forte rischio che questa si possa ripetere e un pericolo alla pubblica sicurezza.
I primi a dare inizio all’irruzione all’interno della scuola furono gli agenti del reparto mobile di Roma, seguiti a ruota da quelli di Genova e Milano, mentre i battaglioni dei carabinieri circondavano il perimetro. Pochi minuti prima della mezzanotte, le 93 persone che si preparavano a dormire dentro la Diaz sentirono 150 paia di anfibi avanzare nel quartiere Albaro. Mark Covell, dopo essersi accorto che la polizia stava arrivando uscì dall’immobile per dichiarare che era un giornalista, ma in poco tempo vari agenti antisommossa lo circondarono e iniziarono a picchiarlo, fino a mandarlo in coma.
Restò in piedi urlando, fino a quando non lo colpirono alle ginocchia e lo fecero cadere sull’asfalto, mentre giaceva inerme sperava che la polizia riuscisse a sfondare presto il cancello, così da permettergli di fuggire e raggiungere la redazione di Indymedia per scrivere l’ennesimo articolo sulle violenze della polizia di quei giorni, ma un agente gli saltò addosso assestandogli un calcio sul petto tanto violento da incurvargli la parte sinistra della gabbia toracica, rompendogli sei costole. Eppure, nonostante tutto, era ancora cosciente. Fu in quel momento, allora, che per passare il tempo altri agenti iniziarono a colpirlo con altrettanti calci e manganellate, fino a farlo svenire.
La polizia entrò nella Diaz e occupò i quattro piani dell’edificio picchiando a sangue e “con metodo” tutte le persone che dormivano nei sacchi a pelo, che si stavano preparando a coricarsi o che si erano nascoste sperando di non essere trovate. I poliziotti, però, non si limitarono a qualche colpo, si accanirono sulla gente colpendola alla testa, calciandola, sputandogli addosso, sbattendo la testa dei poveri malcapitati sugli armadi. Nell’arco di pochi minuti tutti gli occupanti del piano terra furono resi impotenti, ma il massacro continuava.
Le umiliazioni non mancarono: un gruppo di persone fu fatto inginocchiare in modo da poter essere colpito meglio; un ragazzo, sdraiato nel suo stesso sangue, fu coperto dalla schiuma di un estintore; un agente si mise a gambe aperte davanti a una donna e le avvicinò il pene al viso; un altro poliziotto interruppe il pestaggio per tagliare i capelli alle vittime. Ci fu anche chi tentò di fuggire, come Jaraslav Engel, ma venne fermato a pochi metri dalla scuola da alcuni autisti della polizia che gli spaccarono la testa e rimasero a guardare il suo sangue scorrere sull’asfalto.
L’odore acre di sangue intanto si diffondeva nelle aule della scuola. Nel frattempo, fuori dall’edificio si erano radunati altri manifestanti e giornalisti che urlavano “bastardi!”. Poco a poco furono trasportati i feriti fuori dalla scuola e i più gravi, 61 in tutto, vennero portati in ospedale, mentre i restanti furono condotti dall’altra parte della città nel centro di detenzione di Bolzaneto, dove erano già trattenuti numerosi manifestanti catturati durante i cortei dei giorni precedenti. I 222 detenuti vennero sottoposti a torture ben peggiori di quelle già avvenute all’interno della Diaz.
Appena arrivati al carcere furono marchiati con un pennarello sulle guance e molti dovettero passare in mezzo a due file di poliziotti che continuavano a picchiarli con il manganello. Furono costretti a rimanere in piedi con la faccia al muro per tutta la notte in celle contenenti più di trenta persone; chi non riusciva a mantenere la posizione veniva sbeffeggiato, picchiato e talvolta gli veniva spruzzato negli occhi lo spray al peperoncino. I detenuti venivano costretti a cantare inni al Duce e Pinochet, ad abbaiare come cani, alcune donne furono minacciate di stupro, altre vennero umiliate facendole sfilare nude. Alle vittime venne negato il diritto di chiamare un avvocato e furono costretti a firmare delle dichiarazioni e chi si rifiutò si trovò con le costole rotte.
Il giorno dopo, durante una conferenza stampa, venne annunciato che tutte le persone presenti nell’edificio sarebbero state accusate di resistenza aggravata e associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio. Nella stessa occasione, furono esibite quelle che la polizia descrisse come armi: piedi di porco, martelli e chiodi che gli stessi agenti avevano preso in un cantiere accanto alla scuola, strutture in alluminio degli zaini, diciassette macchine fotografiche, tredici paia di occhialini da nuoto, dieci coltellini e un flacone di lozione solare. Mostrarono anche due bombe Molotov che, erano state trovate in precedenza in un’altra zona della città e introdotte nella Diaz alla fine del blitz.
Le forze dell’ordine però non si limitarono a fornire prove e testimonianze false, tra cui la notizia che durante il blitz un manifestante aveva accoltellato un poliziotto; ma tentò – e in parte ci riuscì – di sbarazzarsi di tutte le prove degli attacchi della polizia ai manifestanti. Infatti, la notte dell’incursione, un gruppo di 59 poliziotti si recò nell’edificio di fronte alla Diaz, sede della redazione di Indymedia e iniziò a minacciare gli avvocati e i giornalisti, spaccare computer e sequestrare dischi rigidi, portando via qualunque cosa contenesse fotografie e filmati.
In seguito, poiché i magistrati si rifiutarono di condannare i manifestanti presenti all’interno della Diaz, soprattutto dopo aver smascherato le accuse infondate, le forze dell’ordine riuscirono a far espellere quelle 93 persone dall’Italia per cinque anni. Nessun politico italiano è stato chiamato a rendere conto dell’accaduto, anche se c’è il forte sospetto che la polizia abbia agito come se qualcuno le avesse promesso l’impunità. Un ministro visitò Bolzaneto mentre i detenuti venivano picchiati e a quanto sembra non vide nulla, o almeno nulla che ritenesse di dover impedire.
Gran parte dei rappresentanti della legge coinvolti nelle vicende della scuola Diaz e di Bolzaneto se l’è cavata senza sanzioni disciplinari e senza incriminazioni. Nessuno è stato sospeso, alcuni sono stati promossi. Nessuno dei funzionari processati per Bolzaneto è stato accusato di tortura: la legge italiana non prevede questo reato. Nessuno è stato incriminato per le violenze inflitte a Covell e, come ha detto Massimo Pastore, uno degli avvocati delle vittime, “nessuno vuole ascoltare quello che questa storia ha da dire”.
Vorrei concludere rispondendo ad una domanda che probabilmente si saranno fatti in molti: perché parlare del G8 di Genova, di Carlo Giuliani, di Mark Covell, della scuola Diaz e di Bolzaneto a diciotto anni di distanza? Una delle risposte potrebbe essere per non dimenticare “la più grande sospensione dei diritti umani e democratici dalla Seconda Guerra mondiale in Europa” come definito da Amnesty International, ma non c’è solo questo.
Quell’estate, così distante dalla nostra, erano presenti trecentomila persone che protestavano per portare all’attenzione del G8 problemi che avrebbero gravato sul loro futuro, anzi, sul nostro, e che sono state oscurate dagli atti di violenza di quei giorni. Erano presenti sindacalisti, movimenti cattolici, migranti, intellettuali e giornalisti di tutto il mondo, un grande movimento trasversale no global che protestava contro l’aumento dell’ingiustizia sociale a livello globale, contro l’insostenibilità delle politiche economiche fondate sul debito, contro le multinazionali, contro le lobby sui parlamenti, contro la diffusione di xenofobia e razzismo; che è stato completamente fatto a pezzi dalla violenza. Allora la mia risposta è che parlare di quell’estate del 2001 è necessario e doveroso, perché in diciotto anni è cambiato poco e nulla, ma noi continuiamo ad ignorare quello che ci accade intorno. In fondo nell’ignoranza si vive meglio.
Stella Mantani
(Tutte le immagini presenti dell’articolo sono tratte dal film Diaz – Don’t clean up my blood)