
L’8 agosto 2019 da una città della Russia subartica si alza un grido silenzioso che guarda al passato tanto quanto al futuro: un’esplosione in cui perdono la vita cinque scienziati nucleari, avvenuta vicino a Severodvinsk. Questa piccola città che si affaccia sulle coste del Mar Bianco è una delle zone della sconfinata Russia dove si effettuano test militari. Stando alle dichiarazioni ufficiali, infatti, l’esplosione sarebbe avvenuta nel corso di un esperimento su un motore a propellente liquido.
La segretezza che lo Stato ha cercato di mantenere sulla faccenda ha fatto però sorgere qualche dubbio riguardo la vera natura dell’accaduto, tanto che si è iniziato a sospettare che in quella cittadina artica si stesse testando un missile a propulsione nucleare, arma conosciuta in Occidente con il nome di Skyfall. Del resto, sperimentazioni su un nuovo sistema missilistico erano state già annunciate da Vladimir Putin in persona nel 2018.
Lassina Zerbo, segretario esecutivo del CTBTO (Organizzazione a sostegno del trattato di bando complessivo dei test nucleari), ha denunciato alcuni avvenimenti sospetti che hanno seguito l’esplosione: Tra il 10 e l’11 agosto hanno smesso di funzionare le stazioni di controllo di Dubna e Kirov, seguite il 13 agosto da quelle di Bilibino e Zalesovo. Il vice ministro degli Esteri russo Sergei Ryabkov ha però dichiarato che l’incidente non è di competenza dell’Organizzazione, ricordando che “per ogni Paese la trasmissione dei dati dalle stazioni del settore nazionale del sistema internazionale di monitoraggio è assolutamente volontaria”. Lo stesso Putin ha risposto a Zerbo assicurando: “Non c’è alcuna minaccia e non c’è un aumento del livello di radiazioni. Abbiamo inviato esperti che ora stanno controllando la situazione. Misure preventive vengono intraprese in modo che non accada nulla d’imprevisto”.
Nel pomeriggio dell’8 agosto vengono ricoverati all’ospedale regionale di Arcangelo i feriti nell’esplosione che, secondo le dichiarazioni dei presenti, giungono in clinica “nudi e avvolti in teli di plastica traslucida”. Nessuno aveva avvertito il personale di primo soccorso del rischio della presenza di forti radiazioni, che i medici comprendono solo tempo dopo attraverso le analisi svolte sui pazienti. Testimoni di ciò sono i pochi che si sono rifiutati di firmare un documento di riservatezza che avrebbe impedito loro di parlare dell’accaduto.
Quello di mistero non è l’unico alone che avvolge Severodvinsk: una nube radioattiva si è velocemente diffusa nell’area circostante, arrivando addirittura a toccare i confini con la Norvegia. Il livello di radiazioni misurato nella zona sarebbe dalle 4 alle 16 volte superiore alla norma, è costretta ad ammettere la Russia qualche giorno dopo l’incidente. Il CTBTO ha rilasciato una simulazione di quelle che potrebbero essere le conseguenze dell’incidente nucleare, le cui immagini richiamano alla memoria altri incidenti dello stesso tipo, anche se di portata superiore: Chernobyl in primis, ma anche il sottomarino nucleare Kursk affondato nel Mare di Barents il 12 agosto 2000.
L’unico modo per farsi un’idea delle conseguenze dell’esplosione nucleare di Severodvinsk è guardare indietro alla sua sorella maggiore, al primo posto tra i più gravi incidenti nucleari mai verificatisi in una centrale: Chernobyl.
Il reattore numero 4 della centrale ucraina di Pryp”jat’ esplode il 26 aprile 1986, a causa di un aumento di potenza e di temperatura che provoca la rottura del sistema di raffreddamento del reattore stesso. La nube radioattiva si diffonde velocemente, costringendo all’evacuazione dei circa 336.000 abitanti delle zone circostanti. Il semplice errore umano, accompagnato dalla cattiva progettazione della centrale, ha provocato sul momento 66 morti accertate (31 secondo la stima ufficiale del governo sovietico nel 1987), ma ha lasciato in eredità numerosi casi di tumore, specialmente alla tiroide. Le cifre che riguardano le morti presunte, ovvero i casi di decesso che si considerano direttamente collegati all’effetto delle radiazioni, spaziano dai 4.000 stimati dall’ONU ai 6 milioni di Greenpeace.
Il territorio evacuato trentatré anni fa è rimasto spopolato, fatta eccezione per un particolare tipo di turismo che nell’ultimo tempo si sta interessando alla zona ancora contaminata, ma che non presenta più un alto livello di pericolo: luoghi dove il tempo sembra essersi fermato e dove la natura sta riprendendo il sopravvento, tra le bambole abbandonate di fianco alle maschere anti-gas e gli edifici fatiscenti all’interno dei quali tutto è rimasto come allora.
A parte pochi evacuati – si contano sulle dita delle mani – che qualche tempo dopo l’esplosione hanno deciso di tornare a casa, oggi la zona è popolata solo da fauna e flora. Ciò è in netto contrasto con quanto ci si aspettava all’epoca: il fatto che per secoli le radiazioni avrebbero impedito ogni forma di vita, trasformando quella vasta area tra Ucraina e Bielorussia in un deserto. Al contrario, oltre alla flora rigogliosa, si possono osservare cani, gatti, lupi, cavalli, orsi bruni, bisonti, pesci e addirittura 200 specie di uccelli. La presenza di questi animali è stata studiata dalle telecamere installate in alcune aree delle zone evacuate dal Progetto TREE del Centro per l’ecologia e l’idrologia del Regno Unito.
Le ipotesi sulle cause di questo fenomeno sono numerose: la fauna selvatica potrebbe essere più resistente alle radiazioni di quanto si pensasse, oppure potrebbe essersi adattata, nel corso degli anni e delle generazioni, a vivere nella zona contaminata. Sicuramente questi animali hanno modificato alcune loro caratteristiche fisiche e comportamentali, e infatti in alcuni aspetti si mostrano diversi dai loro simili della stessa specie che vivono al di fuori dell’area. La causa più evidente, però, è la mancanza del fattore umano: che le nostre azioni quotidiane siano per l’ambiente più dannose che un’esplosione nucleare di livello 7?
L’uomo è naturalmente portato a immaginare che la sua estinzione, la cosiddetta apocalisse, coincida anche con la fine del pianeta Terra, mentre non sarebbe altro che la fine del pianeta Terra così come lo conosciamo. Le grandi opere che ci etichettano come la specie più evoluta verrebbero distrutte con sorprendente facilità dalla natura. La Natura che dovrebbe essere la nostra migliore amica, ma alla quale negli ultimi tempi stiamo facendo guerra come se fosse il nostro principale avversario. Un conflitto di cui non possiamo vincere neanche una battaglia. Diceva il biologo americano John Orrock già nel 2006: “La triste verità è che subito dopo la scomparsa degli uomini, l’ambiente inizierebbe a stare molto meglio“. Prova ne è il fatto che, secondo molti studi, l’unico modo per preservare la flora e la fauna di Chernobyl è trasformare la zona per eccellenza devastata dal fattore umano in riserva naturale.
Clarice Agostini
(In copertina Wendelin Jacober da Pixabay)