Il nostro orizzonte non è quest’anno o la fine della legislatura. Forse vi stupirà ma il nostro orizzonte è quello del 2050, quando un bambino che nasce oggi avrà esattamente l’età che ho io in questo momento.
Luigi Di Maio, 26 settembre 2018
Iperboli e dichiarazioni esagerate ormai sono all’ordine del giorno in politica. Tuttavia, l’ilarità che quest’affermazione di Di Maio può suscitare oggi in chiunque abbia una certa familiarità con la politica italiana dice molto sulla tragicomica esperienza del Movimento 5 Stelle al governo.
Un partito ridotto a banderuola, incapace di presentare una propria idea di società, finito per essere schiacciato da quello che, stando ai numeri, sarebbe dovuto essere il socio di minoranza nell’esecutivo. Se, infatti, all’indomani delle elezioni, i pentastellati potevano contare sul doppio dei parlamentari leghisti, il crescente protagonismo di Salvini ha ben presto invertito i rapporti di forza. Oggi il Movimento 5 Stelle vede i propri consensi dimezzati e, in un clima interno di paura e risentimento, si avvia al voto che ne sancirà, forse in modo definitivo, l’irrilevanza. La Lega, al contrario, si prepara ad incassare, e Salvini è già pronto a vivere la prossima legislatura come protagonista assoluto.
Ma come siamo arrivati fin qui? Per avere un quadro più chiaro della situazione attuale e poter magari azzardare qualche previsione sul futuro prossimo è quantomai necessario un riepilogo di ciò che è stato in questi quattordici mesi il governo Conte.
Verso un “anno bellissimo”
Il voto del 4 marzo 2018 ha decretato un enorme mutamento nel panorama politico italiano. Il paese veniva da diversi anni di crisi in cui, spesso aggirando il mandato elettorale, sono state adottate misure impopolari. C’era quindi nell’aria un grande desiderio di cambiamento e a beneficiarne sono stati i due partiti che più di tutti promettevano che avrebbero cambiato le cose, Movimento 5 Stelle e Lega. Il risultato sopra le aspettative delle due forze “anti-sistema” li convinse che l’unica possibilità per risolvere lo stallo era formare insieme un governo di coalizione. Fu così che, dopo circa un mese di prudenti negoziati tra Di Maio, Salvini e Mattarella, il 1° giugno giurò il governo Conte.
Ciò che più resta impresso di quei giorni è la scelta di proporre il programma pensato per gli anni a venire come un impegno nei confronti dei cittadini del quale Giuseppe Conte, autoproclamatosi l’avvocato degli italiani, sarebbe stato il garante. Il singolare “contratto di governo” presentato dal premier e dai due vicepremier in giubilo non scendeva nei dettagli ma conteneva enormi contraddizioni di principio che sarebbero emerse più avanti. Una su tutte il conflitto tra la flat tax (tassa piatta) avanzata dalla Lega e il cosiddetto reddito di cittadinanza, da sempre cavallo di battaglia dei 5 Stelle. La prima è un taglio delle tasse per tutte le fasce di reddito, riforma fiscale tipica della destra; la seconda un sussidio per i disoccupati, misura di welfare che si può definire di sinistra.
Il braccio di ferro (perso) in Europa
Finanziare anche solo una di queste due costose misure economiche avrebbe costretto il governo a un difficile negoziato con la commissione europea, poiché aumentare le spese senza che crescano gli introiti porta inevitabilmente a un innalzamento del deficit. I giallo-verdi avevano quindi una missione impossibile da compiere e il risultato, anche a causa delle divergenze interne all’esecutivo, è stato assai più deludente delle attese. In seguito ai memorabili festeggiamenti di Di Maio e dei suoi ministri dal balcone di Palazzo Chigi il 27 settembre per un banale 2,4% (deficit inferiore agli anni del governo Renzi) il governo è stato spinto a un’ulteriore marcia indietro.
Ottanta giorni dopo, il 13 dicembre, Conte e il ministro dell’economia Giovanni Tria hanno comunicato che nella manovra il deficit non avrebbe superato il 2,04%. In risposta alle critiche ricevute a seguito di questo insuccesso, Salvini e Di Maio hanno subito dichiarato che l’anno seguente, in occasione delle elezioni europee, si sarebbero presi una rivincita e avrebbero cambiato le regole. Il trionfo in Italia della Lega, tuttavia, non ha avuto grossi riscontri nel resto dell’Unione Europea e della rivoluzione promessa da Salvini e Di Maio non c’è traccia.
È proprio la linea da seguire in Europa, forse, lo snodo decisivo per il governo. Mentre Salvini, in maniera funzionale al suo gioco delle parti, è riuscito a isolare l’Italia in modo da avere una giustificazione pronta all’imminente fallimento delle trattative, Di Maio gli si è semplicemente accodato. Se i 5 Stelle avessero fatta propria questa battaglia, forse l’unica grande battaglia su cui distinguersi dalla Lega, è molto probabile che le cose sarebbero andate in modo diverso. E invece, il Movimento, nato anti-euro e da sempre distintosi come “anti-casta”, ha addirittura sostenuto la candidatura a presidente della commissione europea di Ursula von der Leyen, membro del partito di Angela Merkel e proveniente da una famiglia aristocratica tedesca.
L’egemonia della Lega su immigrazione e sicurezza
Il “reddito di cittadinanza” è stato approvato in via definitiva lo scorso 27 marzo ma l’abolizione della povertà annunciata dal ministro del lavoro è ancora lontana. La scarsa quantità di riceventi nonché di risorse ad essi destinata, infatti, ha in breve tempo distolto l’attenzione dell’opinione pubblica, molto più interessata ai temi congeniali alla Lega. Temi, questi, “a costo zero” su cui il governo ha avuto molta più libertà di manovra. Si parla dunque di legittima difesa, su cui il 26 aprile è stata approvata una legge lievemente più “permissiva”, e soprattutto di immigrazione. Tra il 10 e il 12 giugno 2018 ha avuto luogo il primo caso, quello relativo alla nave Aquarius.
La nave dell’ong francese Medici Senza Frontiere carica di ben 629 migranti, molti dei quali in condizioni precarie, è stata bloccata su ordine del ministro dell’Interno ed è rimasta per due giorni tra le acque italiane e quelle maltesi finché il primo ministro spagnolo Pedro Sanchez non ne ha autorizzato lo sbarco nel suo paese. Ma il caso Aquarius è stato solo il primo di una lunga serie di interventi personali e diretti di Salvini per limitare il più possibile gli sbarchi in territorio italiano. Poco dopo c’è stato il caso Diciotti ritenuto il più grave di tutti in quanto l’imbarcazione fermata dal vicepresidente del Consiglio apparteneva alla guardia costiera italiana. Tra il 20 e il 26 agosto la nave Ubaldo Diciotti è rimasta nel porto di Catania con più di cento persone a bordo senza che il governo desse il via libera allo sbarco.
Un’azione inaudita come quella di Salvini sul caso Diciotti non poteva non produrre conseguenze legali. Il 25 agosto è arrivato l’avviso di garanzia da parte della procura di Agrigento e i reati contestati sono sequestro di persona e abuso d’ufficio. Un’occasione per il leader dalla Lega di presentarsi come martire ma allo stesso tempo un boccone amarissimo per il Movimento 5 Stelle, già schiacciato dal peso mediatico dell’ingombrante alleato di governo. Il 20 marzo di quest’anno al Senato la maggioranza compatta ha votato contro l’autorizzazione a procedere richiesta dal tribunale di Catania e i pentastellati hanno rinunciato pure al dogma dell’onestà per salvare il governo.
Le giravolte su grandi opere e ambiente
In Italia i partiti verdi non sono mai stati molto rilevanti e le poche istanze ambientaliste sono confluite nel movimento fondato da Beppe Grillo. Una volta arrivato al governo quindi c’erano grandi aspettative su questi temi e ci si chiedeva se le promesse fatte in campagna elettorale sarebbero state mantenute. Ancora una volta però Di Maio e i suoi ministri non sono riusciti a far valere le loro idee.
Lo stabilimento industriale di Taranto di proprietà dell’Ilva, per il cui inquinamento l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, non è stato chiuso come promesso. Sempre in Puglia, regione in cui il M5S ha ottenuto il 45% dei voti, è arrivata poi la seconda giravolta sul gasdotto trans-Adriatico, meglio conosciuto come Tap. Il ministro del Sud Barbara Lezzi, che aveva sempre appoggiato la lotta del Comitato no-Tap, sostenuto anche da numerosi sindaci e associazioni locali, ha dichiarato il 28 ottobre scorso che siccome l’opera era già avviata non avrebbe potuto fare nulla per interrompere i lavori.
L’ultima di queste piroette è quella relativa alla linea ferroviaria Torino-Lione, anche detta Tav. L’opposizione a quest’opera, che il movimento no-Tav considera troppo costosa e dannosa per l’ambiente, è stata per anni uno dei punti programmatici più riconoscibili per il Movimento 5 Stelle. Eppure, nonostante a seguito della famosa analisi costi-benefici il ministro dei trasporti Toninelli avesse dato per certa la dipartita del progetto, due settimane fa il presidente del Consiglio si è espresso a favore innescando così la crisi.
Perché Salvini ha vinto e Di Maio ha perso?
Sicuramente è anche una questione di esperienza. Come ha ripetuto più volte Di Maio, la Lega (Nord Per l’Indipendenza della Padania) è in parlamento da più di trent’anni e può vantare una classe dirigente già molto pratica per via delle diffuse attività di governo sia nazionale sia locale; il M5S al contrario è poco radicato sul territorio e a parte rare eccezioni nessuno dei suoi esponenti aveva mai ricoperto cariche rilevanti.
Ma per analizzare al meglio le dinamiche di questa breve stagione politica ormai giunta al termine occorre considerare altri due fattori decisivi. Uno che ha determinato il successo della Lega e un altro che ha decretato la caduta del Movimento 5 Stelle.
La carta vincente di Matteo Salvini è stata senza dubbio la comunicazione. Il suo staff ha studiato nei minimi dettagli la strategia da adottare sia sui social, dove il leader è onnipresente e protagonista di una campagna altamente personalistica, sia nei comizi, numerosissimi in tutta Italia senza trascurare i piccoli paesi. Non solo, a edificare il consenso è stata anche (e soprattutto) l’impostazione del discorso politico di Salvini.
Al di là del registro basso, a tratti cafone, ciò che appare lampante è la capacità di polarizzare l’opinione pubblica appresa dal modello vincente americano, Donald Trump. “O con me o contro di me”, questo è il succo della comunicazione del leader leghista. La ripetizione martellante di una manciata di temi scottanti sui quali si è certi di poter contare su un largo consenso e la strategica individuazione di nemici da combattere. Dall’odiatissima ex presidente della Camera (ruolo istituzionale e non di governo) Laura Boldrini allo scrittore “buonista” Roberto Saviano. Tutti costantemente interpellati dal leader e ingabbiati in una polemica infinita che può fare solamente il suo gioco.
A causare la rovina di Di Maio invece è stato un problema più profondo e strutturale del Movimento: la sua natura totalmente post-ideologica. In uno stato moderno e democratico a suffragio universale l’azione della Politica consiste nel recepire le istanze provenienti dal basso e provare a tradurle in benefici concreti per le categorie di cittadini alle quali si vuole far riferimento. Per questo motivo nella stragrande maggioranza della questioni politiche non esistono approcci “giusti” o “sbagliati”. Ogni decisione porta vantaggi a determinate fasce di popolazione e svantaggi ad altre.
È così, dal lavoro all’ambiente, dal fisco alla giustizia, dal welfare ai trasporti, dalla sanità all’istruzione. È necessario quindi proporre dei propri criteri di lettura della realtà e assumersi la responsabilità di fare delle scelte. Meglio una società gerarchica o una egualitaria? Aumentare le tutele dei lavoratori dipendenti o l’autonomia dei datori di lavoro? Dove si trova il confine tra interesse economico e protezione dell’ambiente? Progressività fiscale o tassa piatta? Giustizia punitiva o riabilitativa? Sanità pubblica o privata? Istruzione pubblica o privata? Come favorire un sano sviluppo democratico del paese? Il M5S non ha mai preso posizioni precise e coerenti, per questo si è trovato in balia del suo alleato.
Ogni buon cittadino dovrebbe invece pensare a come rispondere alle suddette domande. Perché senza tali risposte non si può costruire una proposta politica valida. Perché oggi in Italia sono in pochi ad avere una propria risposta. Ma soprattutto, perché Salvini, dal canto suo, è uno di quei pochi.
Federico Speme