Bisogna porre un fine alla propria vita per vivere felice
Giacomo Leopardi
Superata la fase dell’infanzia, in cui ogni singolo avvenimento corrisponde a una scoperta emozionante e intensa, si arriva all’adolescenza, un punto di rottura di tutte le certezze, in cui si ha la necessità di avere un fine per essere felice. Siamo in un periodo della nostra vita in cui ci rendiamo conto che siamo padroni del nostro piccolo mondo, che vogliamo qualcosa di diverso, che tendiamo per natura a qualcosa di più. Per questo esiste lo stereotipo – soprattutto attualmente con internet, le app, i giochi online – dell’adolescente che spreca il suo tempo, che non fa niente di costruttivo, che ruota attorno a uno sfrenato edonismo: perché abbiamo bisogno di aggrapparci a qualcosa. E quindi l’amicizia diventa un patto di sangue, l’amore durerà per sempre.
Abbiamo un carapace di malinconia perenne che nasconde la paura di rimanere soli, di non trovare qualcuno con cui condividere le nostre emozioni. Per questo ci aggrappiamo a cose del tutto banali come i “like” di Instagram. Semplicemente di fronte alla domanda “A che mi servirà la mia vita?” è più facile perdersi. E ci si perde volontariamente, perché stare su Instagram, guardare Take me out, sentire la musica chiusi in una stanza, tutta questa serie di piccole e superficiali soddisfazioni, è più facilmente raggiungibile di “gloria letteraria, o fortuna, o dignità, una carriera insomma”. E con la stessa rapidità con cui le abbiamo assaporate, queste soddisfazioni svaniscono.
C’è quindi una differenza enorme, anche se apparentemente impercettibile, tra vera Felicità – data da un successo, per cui si è impiegata della fatica, uno sforzo – e felicità apparente, data dallo sfogo di bisogni momentanei. Per arrivare a vivere felice bisognerebbe come primo obiettivo prendere consapevolezza che la vita non è altro che un percorso che serve ad andarsene migliori di come si è arrivati, a cambiare rimanendo gli stessi, forse un po’ diversi, con rigidità smussate, sicurezze acquisite, fragilità confermate, ma sempre gli stessi.
E tutto questo è estremamente difficile, da accettare e da compiere. Ecco perché Christiane F. prova l’eroina, gli Hikikomori si chiudono nella loro stanza e non escono, Peter Pan è rimasto un bambino: perché per raggiungere un fine bisogna essere consapevoli della propria grandezza, sicuri della nostra determinazione; e invece ci spaventiamo, ci paralizziamo. Ma arriva un punto della nostra vita, arriva per tutti, in cui, come il giovane ‘Ntoni de I Malavoglia di Verga, capiamo che qualsiasi possa essere la sua natura, i suoi limiti, le sue insicurezze, l’uomo tende a qualcosa di più grande della rassegnazione. Tende a qualcosa di più di una “nuda vita” fatta di vuoto.
Anche la conferma della propria fragilità può essere una spinta per individuare un fine a cui tendere per essere felice. Anche la continua ricerca di un fine che magari non si raggiungerà mai fa vivere più felice di chi “passa di godimento in godimento, di trastullo in trastullo”, perché nel tentativo di raggiungere un obiettivo, ci si conosce, e di conseguenza si diventa più consapevoli dei limiti da abbattere.
Ma in fondo non si può che compatire, piuttosto che condannare, chi non si è “mai posto uno scopo a cui mirare abitualmente”, chi non si è mai chiesto “a che mi servirà la vita?”. Perché non c’è cosa peggiore, per un uomo che per natura è destinato quantomeno a provare a morire migliore di come è nato, di sopravvivere al vuoto che ha dentro.
Elettra Domini
(In copertina StockSnap, da Pixabay)