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Il primo re e il senso del sacro – Parte 2

Il re Remo con la spada medita in silenzio

Contro i segni più evidenti

L’aggregato umano che si è riunito sotto l’egida dei due fratelli manca ancora di una condizione necessaria per divenire propriamente una tribù: le donne. Ecco allora che il gruppo scopre il villaggio dei guerrieri sconfitti in precedenza. Quella terra ora può essere loro, e dalla commistione con quel sangue potrà nascere una progenie. Remo comincia a mostrare i primi segni di ἄτη (“accecamento”), quella condizione tipica del mondo greco in cui un individuo cade preda della sua superbia, quando, in riva a un fiume, Tefarie gli confida di aver visto, nella sua forza, un segno di “qualcosa di non umano”. Remo, ascoltate queste parole, osa toccare la donna, che allora risponde con queste parole: “Solo il Dio può avermi. Sei tu il Dio?” La sera, mentre si svolge una danza per i guerrieri caduti, la vestale pratica l’arte aruspicina su un fegato di agnello, traendone un terribile responso: di due fratelli, uno solo diventerà re.

Remo, per poter governare, deve uccidere Romolo ancora convalescente, ma il sovrano non vuole sentire ragioni, nemmeno quando il fratello stesso lo supplica. Tutti dicono a Remo di consumare questo sacrificio in nome di una volontà imperscrutabile, le cui ragioni sono ignote, e a cui tuttavia ci si deve assoggettare perché nessuno può mettersi contro gli Dei, perché un gesto del genere sarebbe nefas (“empio”).

Qui si consuma completamente l’empietà di Remo, che antepone la vita del fratello all’obbedienza divina”. Per questa ragione replica aspramente: “Se obbedire agli Dei significa uccidere mio fratello, allora io sono il solo Dio che riconosco”.

La ὕβρις (“superbia”) ha raggiunto il suo colmo: Remo, che è stato riconosciuto re, si rifiuta di riconoscersi suddito di una potenza superiore, innescando una sequenza di eventi drammatica. Dapprima il sovrano, in preda al delirio, uccide un vecchio, quindi fa sbranare la vestale dagli animali del bosco e, con il fuoco del Dio, incendia le abitazioni del villaggio; infine, getta a terra il braciere che conteneva la fiamma sacra. Secondo Remo, il potere degli Dei si basa unicamente sulla paura: con essa gli uomini temono le divinità, che in questo modo li dominano. Anche se l’intento del re è di porre fine alla superstizione, l’unità degli individui è spezzata: le fiamme delle abitazioni disperdono la popolazione, impaurita e timorosa. Romolo commenta amareggiato: “Il fuoco era la nostra unica speranza, ora non abbiamo più nulla”.

La notte, illuminata dall’incendio delle abitazioni, torna minacciosa e truce come i fuochi della schiavitù di Alba: la moltitudine di individui non è più un gruppo, ma solo una molteplicità di esseri soli.

L’ordine del rito

Anche quella lunghissima notte, alla fine, passa. Remo è tornato in sé, e, alla guida di un manipolo di fedelissimi, è uscito per battagliare contro alcuni nemici. In città rimangono soltanto donne e bambini: i più guardano con occhi smarriti le case carbonizzate, il braciere nella polvere. A un tratto Romolo, che finalmente può rialzarsi, compare sulla scena: si avvicina alle ceneri, e comincia a esaminarle attentamente, sotto gli occhi attenti dei presenti; trova infine un carboncino che ancora arde.  Il fuoco, che sembrava sopito, in verità non ha mai smesso di bruciare: il favore degli Dei non è terminato, c’è ancora speranza. Stringendosi in cerchio, la parte più debole della città – cioè quella

di chi non combatte – si riunisce sotto Romolo, salvatore della religio, e per questo il suo primo

atto da re, ma religioso, della città, è proprio quello di nominare una nuova vestale come custode del fuoco. Il riconoscimento, questa volta, non passa dalla casta guerriera della società, ma da quella che, vivendo all’interno del villaggio, ne rappresenta l’identità di culto. Questa nuova forza femminile e giovanile interverrà durante la battaglia in cui Remo si era impegnato, e l’aiuto si rivelerà decisivo per riportare la vittoria. Al termine della battaglia, Romolo allestisce un recinto sacro in cui cremare i corpi dei morti. Un soldato di Remo vorrebbe spogliare i cadaveri, ma Romolo lo ferma: i morti vanno lasciati in pace, hanno diritto a una degna sepoltura. Remo interviene subito nella discussione, dicendo che quelli non sono uomini liberi, perché vinti in  battaglia. Quando però Cai – lo stesso che aveva tentato di uccidere Romolo – tenta di violentare una donna, due frecce lo colpiscono, seguite da due giovani ragazzi che lo pugnalano alle spalle. L’esercito dei più deboli è in schiacciante superiorità numerica.

Remo stesso, poi, viene abbandonato da un fedele, che entra nel recinto sacro per dare sepoltura al compagno caduto. Avvicinandosi per indicare il fuoco, si rivolge a Romolo: “Lì dentro non c’è nessun Dio, lo capisci?”. Ma il fratello è categorico: “Non osare varcare questa soglia”. Da questa situazione nasce il duello tra i due fratelli, che sembra, in un primo momento, risolversi in favore di Remo. Ma, proprio quando egli dovrebbe assestare a Romolo il colpo finale, sollevando il capo, vede che intorno a lui nessuno più lo appoggia, né lo riconosce come sovrano. Nell’istante in cui si ritrova solo, Remo vacilla, permettendo all’avversario di colpirlo a morte. Ridotto in fin di vita, Remo chiede al fratello di essere trasportato e seppellito dove sarà fondata la nuova città; quindi, spira. L’ultima scena mostra l’attraversamento del Tevere, che finalmente, dopo tanta agitazione, si mostra calmo e guadabile. Sulla riva opposta a quella del combattimento, Romolo fa allestire una pira per la cremazione del cadavere di Remo. Quindi, prima di accendere il fuoco, pronuncia queste parole:

“Il destino che gli Dei hanno scelto si è compiuto. Ci uniremo a chi non ha più nulla, e tutti i popoli intorno al Tevere faranno parte di questa stessa alleanza.Ma questa città nasce dal mio dolore, e dal sangue di mio fratello.[…]Che questo sangue fraterno che bagna la nostra terra sia duro come la pietra, e che vi sia incisa sopra una sola parola che riecheggi nella mente di ogni uomo che oserà solcarla, attaccarla o chiedere asilo: “Tremate, questa è Roma”.

Gli ultimi fotogrammi inquadrano la pira di Remo avvolta dalle sacre fiamme del Dio. In questo modo il nucleo primigenio della città si incarica di una missione sacra, quella di instaurare un nuovo ordine, una nuova alleanza tra gli uomini che sia espressione dello stesso foedus (patto) che unisce cielo e terra.

La pellicola si conclude con una citazione tratta dalle “Vite Parallele” di Plutarco: “Dopo la fondazione, Romolo riunì gli uomini erranti, i poveri, gli assassini espulsi dalle città. Diede loro coraggio e forza, e disse che non avrebbero avuto pietà di nessuno”. Da ultimo, i titoli di coda mostrano una cartina di Roma in cui è segnalato l’inesorabile avanzata dei Romani fino al 117 d.C., anno di massima espansione di quell’Impero di cui, ne “Il primo re”, è raccontata la nascita.

Il potenziale narrativo, a mio parere grandioso, di questa storia viene sottolineato ottimamente da alcuni elementi ricorrenti nelle scelte di regia. In primo luogo, ad esempio, la volontà di far recitare gli attori imbrattati di fango, per quanto in certa misura inverosimile, aiuta lo spettatore moderno a immedesimarsi nelle condizioni primitive di quelle popolazioni. Lo stesso sporco, inoltre, è spesso in contrasto con il bianco della luce del sole, come quella che filtra dal sottobosco, oppure con il fuoco che rischiara la notte. La colonna sonora, poi, con i suoi ritmi tribali e in cui primeggiano gli strumenti a percussione, sottolinea con enfasi gli snodi principali della trama e i combattimenti in particolare, mettendone in luce il carattere ferino e bestiale. Una scelta in particolare, mi ha colpito: la colonna sonora, anziché trasmettere un senso di futura grandezza e gloria, ha un ritmo nervoso, incalzante, e cupo. Il progetto, anziché un encomio per i futuri fasti della grande Roma, pare piuttosto sottolineare le premesse tragiche che ne hanno permesso la fondazione. Il tema dell’opera, del resto, riprende da vicino tematiche che hanno un sapore primordiale e terrigno: il fuoco, la notte, il fiume, Dio e gli uomini, sono aspetti di una società molto lontana dalla città repubblicana del I secolo a.C., patria di letterati, filosofi, senatori, poeti e generali. Se anche il motto “parcere subiectis, debellare superbos” (risparmiare i sottomessi abbattere i superbi) può ben adattarsi al programma politico di Romolo, il contesto è di tutt’altra natura. La scena si presenta come lugubre, funerea, greve di una drammaticità che, come ho detto prima, ricorda da vicino il teatro tragico greco, e in particolare quello di Eschilo.

Nel tragediografo di Eleusi traspare infatti un rapporto assai problematico con la divinità, il cui disegno si conosce soltanto una volta che si è ultimato, spesso a danno del protagonista (πάθει μάθος).  Forse, le analogie più interessanti possono instaurarsi tra “Il primo re” e “Edipo re” di Sofocle, non tanto per il discorso intorno alla sovranità e al potere, bensì per la struttura della trama. Aristotele, commentando l’opera di Sofocle, elogiava il fatto che la περιπέτεια (“capovolgimento”) coincidesse con la ἀναγνώρισις (“riconoscimento”). Allo stesso modo nella pellicola, l’ascesa di uno dei due fratelli coincide con la caduta dell’altro, ed entrambe sono simbolicamente sancite dall’approvazione del gruppo, che si identifica prima in Remo, poi in Romolo.

Certo, può sembrare fuori luogo scomodare le grandi narrazioni che hanno plasmato il mondo occidentale, eppure questo film conserva la forza di una storia che è stata raccontata per la prima volta. “Il primo re” non è solo realizzato con attenzione nelle sue componenti teatrali, visive, musicali; propone una trama solida, coinvolgente e appassionante, capace, parlando di un mondo mitologico, di far riflettere su quello di oggi. Fanatismo religioso e crisi vocazionali sono soltanto alcuni dei dibattiti odierni che hanno, al loro centro, il concetto di sacro: a “Il primo re” va il merito di aver fatto conoscere meglio questa forza grandiosa e, al tempo stesso, terribile.

Francesco Faccioli

(In copertina la locandina ufficiale del film)

Sull'autore

Nato nel 2001, vivo in montagna – e vista l'aria che tira non ho fretta di trasferirmi. Con ogni probabilità sono l'unico studente di Lettere Antiche ad apprezzare sia Tha Supreme che Beethoven. Da fuori posso sembrare burbero, ma in realtà sono il più buono (e modesto) della redazione.
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