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Il primo re e il senso del sacro – Parte 1

Il re Remo con la spada medita in silenzio

Matteo Rovere ha superato i Romani. Per la prima volta dopo quasi tremila anni, un autore è riuscito a cogliere, nelle sue linee essenziali, la potenza di una narrazione mitologica conosciuta da tutti, ma che il mondo classico non ha mai apprezzato né approfondito, preferendole il dramma di argomento storico, o più spesso rielaborazioni di tragedie greche filtrate attraverso il mondo ellenistico, culturalmente soverchiante nei confronti della società latina.

Oggi, però, possiamo finalmente apprezzare una degna rielaborazione della storia di Romolo e Remo, che ha tra i suoi meriti lo sforzo certosino di ricostruzione di un periodo proto-storico, e una premessa drammaturgica degna delle grandi narrazioni della storia dell’uomo. Infatti, al contrario di altri lungometraggi precedenti (come “Romolo e Remo” del 1961 di Sergio Corbucci), Il primo re tenta, da una parte, di ricostruire un’immagine verosimile e non mediata delle popolazioni italiche verso l’VIII secolo a.C.; dall’altra focalizza la narrazione intorno al concetto di sacro: l’intero film ha quindi i tratti monumentali dell’epos, e – anche se non sempre – le finezze proprie di un complesso lavoro di ricerca.

Uno scontro tra uomo e Dio

La trama non considera che marginalmente le attestazioni documentali del mito (per intenderci, non vedrete una lupa, né tantomeno Rea Silvia) preferendo invece una rielaborazione personale che vada dritta al nerbo della storia. Il cui primo indizio sulla chiave di lettura è offerto da quest’aforisma di William Somerset Maugham, che compare nella sequenza d’apertura:

Un Dio che può essere compreso non è un Dio.

La citazione è significativa di quella che è la cifra più originale della produzione: il rapporto tra potere e secolare e potere spirituale. La tesi su cui si fonda tutto il film è questa: il divino non può essere compreso né tantomeno scrutato, e la fede – qui intesa nella primordialità di un qualunque senso religioso senza apparato concettuale – è l’unica forza capace di garantire all’uomo la sopravvivenza. Sopra questo paradigma, poi, si sviluppa la storia dei due gemelli, che si avvicenderanno alla guida a seconda che incarnino ora l’una, ora l’altra essenza del governo: spirituale (Romolo) o temporale (Remo).

La forza della narrazione risiede proprio nella battaglia tra sacro e profano, divino e umano. Questo scontro, comune a quasi tutte le civiltà di ogni tempo e di ogni luogo, viene raccontato con una forza dirompente, probabilmente mai esplorata prima. Per poter cogliere la bellezza di questo disegno, però, è necessario avventurarsi nella sua trama, per quanto nei suoi tratti essenziali.

Non essere soli

Il film si apre proprio con il futuro re della città che innalza una preghiera (prex: ”cerco di ottenere con le parole ciò di cui ho diritto”) alla triplice Dea, un’antichissima triade divina comune a un gran numero di popolazioni indoeuropee, allo scopo di ottenerne il favore. Il rito si svolge in latino proto-arcaico, che scopriremo ben presto essere l’unica lingua presente nel film: niente doppiaggi, ma un lavoro ammirevole – anche se non sempre filologicamente corretto -, condotto in collaborazione con l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, che punta a una fedele, o almeno verosimile, ricostruzione del passato. In ogni caso, se stiamo alle parole iniziali di Maugham, la scelta appare orientata nella giusta direzione: cosa c’è di meglio, per rendere imperscrutabile un Dio, che ricostruire un linguaggio che nessuno conosce più?

L’inizio, dunque, ci presenta Romolo e Remo, già adulti, come due pastori: uomini poveri, che tuttavia riescono a vivere di quel che l’allevamento offre loro. Troppo bello, per durare a lungo. Infatti, dopo pochi minuti, una piena del Tevere investe in pieno la radura in cui i due fratelli stavano facendo pascolare le loro capre. Un evento che oggi non sembra così catastrofico, come l’esondazione di un fiume, è sufficiente a portare ogni rovina. I due uomini, perdute le ricchezze, diventano così servi (cioè “schiavi”) della città di Alba, al tempo predominante fra le popolazioni insediate in quel tratto di fiume. Vengono imprigionati, e passano la notte rinchiusi in gabbie rozze e sudicie. Nell’VIII secolo a.C., invece, la notte è buia, totalmente buia. Nera. Così nera da far sentire l’uomo solo. Ecco cosa confida Romolo, disperato, al fratello, mentre cala la sera:

Hanno preso le nostre bestie.

Non abbiamo una terra.

Siamo soli. Gli Dei non si curano di noi.

L’unico mezzo per evitare la solitudine, condizione dell’uomo abbandonato a se stesso, è acquistare i favori divini. Per questo Romolo e Remo, condotti a una lotta sacra, per salvarsi la vita inscenano un combattimento. Quando Remo sembra morto, con un abile colpo di mano, si ribellano, massacrando – senza esclusione di violenze – i guerrieri di Alba. Prima di fuggire con un manipolo di prigionieri, però, il futuro fondatore di Roma, pur gravemente ferito, chiederà di condurre con loro il simbolo tangibile del Dio: il fuoco che arde nel braciere, costantemente sorvegliato da Tefarie, la vestale addetta al culto.

I due fratelli, portandosi dietro l’apparato sacro, donano speranza a quegli uomini precedentemente destinati al sacrificio rituale. La loro fuga nella notte è garantita dal fuoco sottratto, che permette loro di tenere lontane le belve, cuocere il cibo, rischiarare le tenebre. La speranza della fiamma riunisce una popolazione primordiale attorno a un’idea, una scintilla, un desiderio che gli Dei proteggono, perché sacro.

Un essere immondo

La compagine, nella fuga dalle furie degli abitanti di Alba, si trova però ad arrestare il cammino in corrispondenza del fiume Tevere: in mancanza di un guado, non è possibile andare oltre. Si impone così l’attraversamento di un bosco, forse infestato dagli spiriti. Il divieto che però preme di più quei fuggitivi è un altro: Romolo, che ora viene trasportato moribondo dal fratello, è empio. Egli ha toccato la vestale, e ora porta su di sé l’invidia deorum (malocchio degli Dei). Se vogliono avere qualche speranza di salvarsi, Romolo deve espiare la sua colpa con la morte.

Remo, però, sa che è proprio grazie a lui se sono riusciti a scappare: se gli Dei hanno propiziato la fuga, non possono aver favorito un uomo colpevole di empietà. Per far valere le sue ragioni, il fratello dovrà rischiare la vita contro la fazione dei dissidenti. Dopo aver trionfato nello scontro, sarà riconosciuto come acro sovrano legittimo. Questo momento ha un suo posto ben preciso nell’economia del film: per la prima volta, infatti, il pubblico assiste a un’agnizione.

Remo è riconosciuto in virtù della sua forza fisica. Attorno a lui, si organizza gerarchicamente il gruppo, che prima era sparso, e ora è unito da un legame quasi sacro. E quando alcuni uomini vorrebbero uccidere Romolo mentre il fratello è a caccia, è proprio la paura primordiale di un atto empio a scongiurare il peggio. Romolo infatti è stato affidato a Tefarie, che lo ha posto dentro il recinto sacro. “Nessuno lo può varcare. È sacro chi esso cinge”.

La forza del gruppo

Grazie al timore suscitato dal Dio, Romolo è salvo. Frattanto, Remo torna dalla sua caccia solitaria, dove ha ucciso il più grande cervo della foresta. Strappatogli il cuore, lo offre al fratello ferito: i suoi attributi – purezza, forza, regalità – si trasferiranno così dall’uomo all’animale. Remo poi fa una promessa al fratello: lui si salverà, passeranno insieme il Tevere e “non avremo più paura, la notte, di dormire”. La mattina seguente i segni sono favorevoli: gli auspici rimarcano il favore degli Dei.

Quando poi le spaventose “teste di lupo” (guerrieri veliensi) sono ormai sulle loro tracce e bisogna combattere, Remo spronerà i suoi compagni alla lotta: l’esortazione unirà gli animi, ed è proprio grazie a questo che essi riporteranno una decisiva vittoria militare contro i temibili guerrieri del villaggio vicino. La coordinazione tra individui ha permesso di garantire la sopravvivenza. Con questo successo si consuma la parabola ascendente di Remo, che da qui in avanti declinerà precipitosamente, con le modalità proprie dell’antica tragedia greca. La potenza militare, finora, è stata fondamentale per la sopravvivenza del gruppo; quando la coesione sarà garantita soltanto dall’obbedienza alle leggi divine, avverrà la catastrofe.

Francesco Faccioli

(In copertina la locandina ufficiale del film)

Continua nella seconda parte…

Sull'autore

Nato nel 2001, vivo in montagna – e vista l'aria che tira non ho fretta di trasferirmi. Con ogni probabilità sono l'unico studente di Lettere Antiche ad apprezzare sia Tha Supreme che Beethoven. Da fuori posso sembrare burbero, ma in realtà sono il più buono (e modesto) della redazione.
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