Cinema

Un traditore a Cannes

Una storia di mafia, dal punto di vista di un pentito che non accetta tale condizione.

Si tratta di Il traditore, ultima opera del regista Marco Bellocchio, capace ancora, nonostante sulla carta d’identità stia per toccare quota 80 (il prossimo 9 novembre), di commuovere e stupire con la messinscena cruda e realistica della storia. Alla sua età si è buttato con coraggio nella ricostruzione della vita di Tommaso Buscetta, primo storico dissidente di Cosa Nostra che fornì importanti rivelazioni sulla struttura dell’organizzazione mafiosa all’allora magistrato di Palermo Giovanni Falcone e che permise così allo stato di risalire alla “piramide” della cosca, dal punto più basso fino alla cupola (la “sede” dei capi), prima dell’omicidio dello stesso Falcone, avvenuto a Capaci il 23 maggio 1992. Il film è uscito nella stessa data ventisette anni dopo, per omaggiare il magistrato siciliano e il suo sacrificio.

Accolto con un quarto d’ora di applausi sulla Croisette di Cannes, il film si presenta come un romanzo aperto, in chiave popolare e senza pesantezze, su Cosa Nostra in tutte le sue sfaccettature, sia nella sua compattezza (rappresentato dal campo e controcampo tra i suonatori di tamburi e la villa dove sono riunite le famiglie in occasione della festa di Santa Rosalia, il 4 settembre 1980, nella scena di apertura del film), sia nella sua sete di vendetta al momento dello sfaldamento (rappresentato dall’uccisione dei parenti e dei figli di Buscetta al momento della decisione di quest’ultimo di collaborare con la giustizia). Lo stesso Buscetta, interpretato da un incredibile Pierfrancesco Favino, si mostra in tutte le sue contraddizioni e, soprattutto, nel suo orgoglio di non accettare di essere un pentito (come dichiarerà più volte nel corso del film) ma che, anzi, semmai è Cosa Nostra ad aver tradito i valori in cui credeva da quando Riina ha preso il comando. Un “soldato semplice” (come egli stesso si definisce), all’interno della piramide di Cosa Nostra che diventa un fedele che rivela i suoi peccati nel confessionale di una Chiesa, quale sembra essere l’ufficio di Falcone. Un riferimento religioso non casuale, poiché il film ripercorre numerose tematiche già viste in L’ora di religione, come la fede cristiana, rappresentata dalla cantilena dei rosari durante i funerali e dallo stesso crocifisso al collo del protagonista. E, nel segreto del confessionale, Falcone si trova quasi ad assumere il ruolo di prete e consigliere del pentito.

Il film, inoltre, ripercorre il cosmopolitismo di Buscetta (non a caso soprannominato “il boss dei due mondi”), prima attraverso la latitanza in Brasile (con conseguente arresto ed estradizione), e poi a New York e in Florida, dove morirà dimenticato da tutti e rinnegato dalla sua stessa famiglia (specialmente dalla sorella, che ripudierà apertamente il suo nome). La perdita di fiducia nei confronti dell’ex boss viene rafforzata dal passaggio in auto assieme al giudice Falcone e al questore di Palermo, con il solito suono di tamburi e gli epiteti discriminatori nei confronti del pentito, che suonano quasi come una condanna a morte.

La ricostruzione fedele dei luoghi ci fa immedesimare nella Palermo di quegli anni ed è coadiuvata anche dalla fotografia, che illumina i primi piani dei personaggi, lasciandoli appositamente sfocati quando si “emarginano” dal contesto e centrando invece la luce su Buscetta, il vero protagonista della storia, anche nel suo volto umano di padre (un esempio è la scena all’interno di Villa Borghese, quando scoppia in lacrime ricordando i figli ammazzati). In Delitto e castigo di Fëdor Dostoevskij Raskol’nikov viene presentato subito come colpevole del delitto di un’anziana e comincia da lì il suo percorso di sensi di colpa all’interno del romanzo, e allo stesso modo fa Bellocchio con Tommaso Buscetta, che diventa una sorta di moderno Raskol’nikov.

Buscetta è, da una parte, un grande tombeur de femmes, come si evince dalla scena di passione con una prostituta in carcere all’Ucciardone di Palermo, e, dall’altra, un marito innamorato della sua Cristina e della famiglia (la scena dell’elicottero, dove viene torturato per dire i nomi dei procuratori della droga e il raccordo di quinta che va sulla moglie, prossima a cadere in mare e la telefonata dal carcere ne sono due esempi cruciali). Ma, più di tutto, l’affresco su Buscetta mette in luce la contrapposizione tra l’uomo e il mafioso, tra la maschera del boss sicuro e carismatico e l’uomo collaboratore di giustizia, denigrato a più riprese durante le deposizioni nei processi. Inoltre, è la rappresentazione shakespeariana dell’eterno confitto amletico dell’uomo con la sua esistenza e il proprio passato, rievocando fantasmi che vivono dentro di noi e che colpiscono come una coltellata al petto.

La mano sapiente di Bellocchio dirige con sicurezza (senza autoritarismi), questo romanzo popolare (dando, cioè, una visione che arrivi al popolo e che sappia parlare a tutti, non solo ai critici), che racconta di mafia, senza opinioni personali o giustificazioni, mantenendo un ritmo denso e, paradossalmente, rapido, grazie ad una sceneggiatura che percorre i 148 minuti di proiezione del film come un fiume in piena, in un vortice di pathos e crudezza, coinvolgendo e facendo immedesimare lo spettatore in Tommaso Buscetta. Non ha ricevuto premi, ma ha ricevuto ovazioni dal pubblico ovunque. E il successo, talvolta, si fa con il pubblico. Non con i premi. Il fatto che abbia ricevuto ben 11 nomination ai Nastri d’Argento è la conferma dell’ottimo lavoro messo in atto dal regista piacentino. Per avere un ulteriore riscontro, bisognerà aspettare il prossimo 29 giugno con la cerimonia di consegna dei premi del Sindacato Nazionale dei Giornalisti Cinematografici, che avrà luogo nel Teatro Antico di Taormina.

Lì si consumerà l’ardua sentenza.

Gianluca Dozza

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