Cultura

Conoscere le foibe – Parte 3

Al termine della precedente trattazione, siamo giunti a conoscere i primi drammatici infoibamenti di cittadini italiani (settembre-ottobre 1943), in conseguenza della sconfitta bellica mussoliniana e del ferreo proposito del regime titino di ridisegnare i confini jugoslavi, adottando una politica aggressiva ed espansionistica, oltre ad una precisa volontà epurativa delle comunità italiane stanziate nei territori reclamati. Non è difficile scorgere gli esiti di un progetto mirato, seppur disorganico, condotto oltretutto con la logica del “fare in fretta” (considerando il repentino sopraggiungere delle truppe tedesche), di distruzione del potere italiano sull’entroterra istriano e della sua sostituzione con il contropotere partigiano. Va però aggiunta una precisazione: a questa liquidazione di massa sistematica, si affiancò una sorta di jacquerie, un furore popolare volto a vendicare i torti subiti durante il Ventennio, e più che mai inasprito dai recenti eventi bellici. Un impeto rurale che trovò dunque modo di manifestarsi a pieno in una situazione di assoluto vuoto di potere, che mirò alla distruzione di ogni possibile traccia del controllo statale fascista (incendio degli archivi municipali, dei cartelli stradali) e alla gioiosa affermazione di un’identità negata (manifestazione di giubilo per le strade coordinate anche dalle unità partigiane). Un rituale macabro accompagnò gli infoibamenti di quei giorni, che nulla poté condividere con le istanze schiettamente politiche della vicenda. Accanto alle vittime vennero infatti trovate le carogne di uno o più cani neri: la loro presenza va unicamente ascritta alla superstizione popolare e al folklore istriano. Narrava la leggenda che un uomo, perseguitato dal rimorso di aver compiuto un omicidio, si recasse da un vecchio saggio per chiedergli aiuto. Ebbe la risposta che avrebbe garantito il ritorno alla normalità della sua vita interiore: per far tacere la propria coscienza definitivamente, l’uomo avrebbe dovuto uccidere un cane nero sul quale scaricare ogni  colpa. Così fece, e così termina il racconto. Non insisterò oltre, su questo: esistono infatti una miriade di varianti della storia, che attribuiscono valori simbolici differenti alla carogna canina – perfino una sorta di “Cerbero”, una creatura demoniaca guardiana dell’oltretomba e dei morti che non hanno ricevuto sepoltura-; tuttavia, mi è parso opportuno precisare il carattere anche popolare della brutalità di quei giorni. Come si conobbero o furono sentiti gli infoibamenti dai contemporanei? Senza insistere troppo sulla propaganda repubblichina, mi limito a riportarvi le parole di Raoul Pupo, Le foibe giuliane 1943-1945 (apparso su “L’impegno“, a. XVI, n. 1, aprile 1996):

Gli episodi dell’autunno 1943, la cui eco fu ampiamente dilatata dalla propaganda della Repubblica Sociale Italiana, contribuirono a radicare la paura dei giuliani di sentimenti italiani nei confronti di un movimento partigiano egemonizzato dai comunisti jugoslavi. Oltre a ciò, l’esperienza del 1943 determinò in tutta la regione il diffondersi dell’aspettativa di una nuova e forse definitiva ondata che avrebbe travolto gli italiani nel caso la Venezia Giulia fosse nuovamente caduta sotto il controllo jugoslavo.

Raoul Pupo

Di questa nuova ondata parleremo ora. E dovremo farlo purtroppo  per ellissi, vale a dire trascurando la torbida e plurima totalità di eventi che intercorrono tra il 1943 e il maggio 1945. Sia esemplificativa la frase riportata da Gianni Oliva, attribuita a Kardelj, uno dei più importanti dirigenti del movimento sloveno di liberazione (OF) e il più intimo collaboratore del maresciallo Tito: “La nostra aspirazione è conquistare Trieste e Gorizia prima degli alleati”. La previsione fu veritiera. Forte di otto divisioni, per un totale di 50.000 uomini, la IV Armata jugoslava si diresse su tre direttrici d’attacco in Venezia Giulia, liquidando le stremate forze di difesa tedesche -siamo a cavallo di marzo e aprile 1945- e penetrando nel capoluogo giuliano il primo maggio. Sulla politica titina, possiamo ascoltare le parole di Ralph Stevenson, ambasciatore inglese a Belgrado, in un rapporto inviato al Foreign Office: “La mia personale analisi della situazione è che lo Stato maggiore generale jugoslavo tenta di fornire una base militare, e quando più forte possibile, alle rivendicazioni politiche. Sul piano pratico è preoccupato di liquidare l’opposizione politica prima di ogni possibile interferenza (…)”. In altre parole, per vedere riconosciuta alla conferenza di pace le proprie aspirazioni territoriali, Tito ha bisogno di uno Stato fatto insieme militare e politico, di una Venezia Giulia pacificata nel segno della rivoluzione sociale e sotto la bandiera nazionale della Jugoslavia. Per poter vedere legittimate le proprie pretese e ambizioni territoriali, è necessario spegnere ogni voce di possibile dissenso. Quali sono queste voci? Si va dai fascisti di piccola taglia ai meri oppositori del comunismo jugoslavo, e in generale a tutti gli organi amministrativi antifascisti italiani che potrebbero legittimarsi di fronte all’opinione pubblica internazionale e agli anglo-americani. Cominciano gli arresti, le deportazioni, le scomparse, nel clima di ritrovata serenità e di pace che va diffondendosi nella nostra penisola martoriata.

Trst je nas” (“Trieste è nostra”). Dovunque compaiono scritte inneggianti a Tito, a Stalin e all’Armata Rossa: Sulle facciate di magazzini, municipi, scuole ed edifici privati sventolano le bandiere a strisce con la stella rossa. “Divieto assoluto di circolazione in città per i civili dalle 8 di sera alle 10 di mattina (…) Domani 4 maggio tutti gli orologi saranno spostati indietro di un’ora, in modo di uniformare il tempo con quello del resto della Jugoslavia”. Recita così l’Ordine n.1 del Comando supremo della Slovenia, stampato il 3 maggio su manifesti bilingue che tappezzano il capoluogo friulano. I giorni successivi avranno luogo le azioni che in molti avevano previsto e temuto: perquisizioni domestiche, fermi, interrogatori, incarcerazioni e scomparse. I familiari delle vittime brancolano nel buio più angoscioso: chiedono conto alle neonate istituzioni delle sparizioni, venendo sballottate da un ufficio all’altro in un’odissea senza fine. Un Comando rimanda ad una caserma trasformata in carcere, da dove si viene rimandati ad un’altra caserma ancora, e da qui si torna al Comando di partenza iniziale per iniziare una nuova, tormentata peregrinazione. L’incertezza sul destino degli arrestati pesa quanto e più degli arresti stessi. Questa atmosfera di cupa casualità e di indeterminatezza ci viene restituita in modo significativo da questa breve pagina di Carlo Sgorlon (La foiba grande, Mondadori, Milano 1992): “Bastava un soffio, un colpo di vento, e addio. Se si alzava la bora, che veniva di Fiume, ormai diventato stabilmente Rijeka, tanti saluti, uno era disfatto, gettato in aria come uno straccio, o una foglia di granoturco. Si viveva giorno per giorno. Ogni cosa poteva accadere”. Contrariamente a quanto si poteva ritenere, non è l’ infoibamento lo strumento principe della mortalità di quei giorni: il maggior numero di vittime lo fecero i campi di prigionia istituiti in Slovenia, Croazia, e persino in Serbia. I viaggi per raggiungere questi luoghi sono assolutamente penosi, affrontati a piedi o in mezzi stipati. Non mancano le sevizie e le violenze da parte dei titini nei confronti dei prigionieri. “I soldati di Tito entrarono nel nostro camerone tenendo nelle mani funi, cavi telefonici, fruste ed armi. Ci ordinarono di alzarci, poi ci legarono e cominciarono a percuoterci. Quando fummo tutti pesti, ci fecero camminare fino alla stazione e lì ci misero su un carro bestiame diretto a Postumia”. Vi ho riportato la testimonianza di Antonio Gau, finanziere. Procediamo. Antonio Strazzullo racconta: “Chi faceva qualcosa che non andava, veniva battuto col frustino, poi gli veniva fatta la punizione della parete. Scalzo con i piedi nudi, il disgraziato doveva stare sulla posizione di attenti e fissare il muro con la testa alta, guardando sempre lo stesso punto. Sono stato così tredici ore e come mi muovevo erano botte”. L’ultima testimonianza menzionata (AMAE, Affari politici, Jugoslavia 1931-1945, busta 146, Trattamento degli italiani da parte degli jugoslavi dopo l’8 settembre) fa riferimento alla detenzione subita presso Borovnica, in assoluto il più terribile campo di concentramento pensato per gli Italiani. Costruito dagli stessi prigionieri, manca di assistenza medica e di qualsiasi forma di organizzazione: non esisteva, ad esempio, alcun registro con i nomi dei presenti nel campo. La denutrizione è altissima, e rappresenta la prima causa di morte nelle prime settimane di maggio. In seguito, sarà la dissenteria a decimare i prigionieri, portandosi via circa 6-7 persone al giorno (cito da “Foibe ed esodo” di Carla Isabella Elena Cace, Pagine, Roma, 2014). Relativo all’ infoibamento, invece, ecco il racconto straordinario di Giovanni Radetticchio, originario di Sissano, pubblicato per la prima volta il 26 gennaio 1946 sul periodico della Democrazia Cristiana di Trieste “La Prora”:

Dopo un chilometro di cammino ci fermammo ai piedi di una collinetta dove, mediante un filo di ferro, ci fu appeso alle mani legate un sasso di almeno venti chilogrammi. Fummo sospinti sull’orlo di una foiba, la cui gola si apriva paurosamente nera. Uno di noi, mezzo istupidito per le sevizie subite, si gettò urlando nel vuoto, di propria iniziativa. Un partigiano armato allora (…) ci impose di seguirne l’esempio. Poiché non mi muovevo, mi sparò contro. A questo punto accadde il prodigio: il proiettile, anziché colpirmi, spezzò il filo di ferro che teneva legata la pietra, cosicché, quando mi gettai nella foiba, il sasso era rotolato lontano da me. Cadendo, non toccai il fondo, essendoci una profondità di circa 15 metri fino alla superficie dell’acqua, e tornando a galla potei nascondermi dietro ad una roccia.

Giovanni Radetticchio

La testimonianza prosegue menzionando poi l’uccisione brutale di tutti i compagni, i cui corpi vengono fatti analogamente precipitare giù. Il signor Radetticchio si sarebbe poi salvato raggiungendo, a notte fatta, la città di Pola, dopo quattro giorni trascorsi nella campagna circostante, celato in una buca. Basovizza, Opicina, Prosecco, Volci, Cruscevizza e Ternovizza: queste alcune delle località del Carso, dove si aprono le voragini delle foibe. Si va dalle dieci alle dodicimila vittime circa, in quel mese di maggio del 1945 – seppure una quantificazione precisa, giova ribadirlo, non c’è ancora stata, né probabilmente avrà mai luogo. I titini, a mio avviso, seppero raggiungere l’obiettivo principe dell’infoibamento. Chiediamoci: cosa vuol dire, realmente, “infoibare”? Non significa semplicemente uccidere un uomo: significa negare il suo essere uomo, reificarlo, trattarlo alla stregua di un rifiuto, gettarlo là dove per secoli la gente d’Istria ha abbandonato le cose che non servivano più. Significa anche cancellare la memoria, l’identità, oltreché l’esistenza fisica della persona. Significa eliminare ogni traccia di uomini donne e bambini, farli cadere nel nulla, nel buio orrido degli anfratti carsici. È come non essere mai esistiti. Questo no, non possiamo concederlo. Non sarà possibile una quantificazione esatta, dicevamo. Non conosceremo più i loro nomi, i loro volti. Ma non ci sarà perdonata la completa dimenticanza di tutto questo. Furono uomini e donne, furono cittadini italiani. Prenderemo coscienza, e saremo i primi responsabili di questa coscienza. Sapremo gettare un barlume flebile e privato nell’immenso bacino di memorie e storie condivise d’Italia, che un giorno formerà chi deve ancora affacciarsi sul mondo. Saremo sensibili alla Storia, e questa sensibilità non verrà a mancare più. Non dimenticheremo. In caso contrario, avremo fatto il gioco del carnefice.

Desidero terminare così la serie presente. Questo piccolo ciclo di articoli non vuole essere esauriente sul piano storico, benché mi sia avvalso di numerose fonti per garantire più ricchezza possibile alla materia trattata. Ho tralasciato, in definitiva, diversi processi, altri ho dovuto necessariamente liquidare in poche righe. Mi basti aver introdotto al lettore quel poco necessario perché si armi lui stesso degli strumenti dell’indagine storica e produca un lavoro più puntuale e preciso del mio. Perlomeno, mi basti che il lettore sappia. L’epilogo, seppur parziale, di quelle mostruosità va ascritto all’intervento statunitense, di Harry Truman, che portò alla costituzione della “Linea Morgan”, e alla divisione della Venezia Giulia in due zone di occupazione, definite zona A (comprendente Trieste, Gorizia, agli alleati) e zona B (relativa a Fiume, l’Istria, le isole del Quarnaro affidata all’amministrazione jugoslava). Un clima di incertezze, di compromessi politici, che si trascinerà fino al 1954: il 26 ottobre di quell’anno, immortalato nella bellissima foto che introduce il nostro articolo, gli Alleati abbandoneranno infine Trieste, restituendola alla sovranità italiana.    

Luca Malservigi

Queste sono le prime due parti del viaggio alle origini del fenomeno delle foibe:

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