“Nostalgia” non è una parola: sono due parole, in realtà. È un termine dall’etimo composto: sebbene sia stato coniato in epoca moderna, deriva dall’unione dei vocaboli greci nóstos (“ritorno”) e álgos (“dolore”), e dunque il concetto che esso sottintende riceve determinazione da una duplice fonte semantica.
La natura composita del termine “nostalgia” fa riflettere sull’idea stessa che sta alla base del suo significato: è un sentimento che si prova in due, e che quindi implica la presenza tanto di un soggetto desiderante, che soffra per l’assenza di qualcosa, quanto quella di un oggetto desiderato, che riesca a colmare quell’assenza solo con il proprio effettivo ritorno. Ma non finisce qui.
Il poema della nostalgia
Il caso letterario che meglio rappresenta le molteplici valenze della parola è senza dubbio l’Odissea.
Nóstos infatti non è unicamente il “ritorno”, ma anche il viaggio stesso: il figlio di Ulisse parte con lo scopo di ritrovare il padre, messo in moto dalla sua mancanza; per cui la nostalgia si fa motrice di due spostamenti convergenti, l’atteso arrivo e la ricerca disperata.
Per la stessa ragione, “nostalgia” è tanto quella di Penelope e Telemaco quanto quella dell’eroe “dalla mente variabile”, che, nel complesso delle sue peregrinazioni, non smette mai di pensare al suo unico vero obiettivo, raggiungere Itaca.
Quest’emozione pertanto ha un valore propositivo e insieme retrospettivo; álgos viene dal verbo algéo, che nella sua accezione di base indica dolore fisico, malattia: se consideriamo che il verbo latino recordor, “ricordare”, trova nella sua radice il sostantivo cor, “cuore”, possiamo facilmente comprendere quanto quel pungolo che opprime il petto del nostalgico sia connesso con lo scorrere del tempo, inteso come sostanza dell’esistenza.
Odisseo, nonostante le proposte della ninfa Calipso, rinuncia a un eterno e divino futuro per inseguire e recuperare il passato che permette al suo cuore umano di battere ancora.
La radice del ricordo
In greco, “ricordare” si traduce con mimnéskein, parola da cui deriva l’italiano “memoria”. Ma il senso implicito va oltre a quello apparente. Mimnésko indica anche ciò che “fa ricordare”, e di conseguenza “memoria” contiene in sé sia l’azione sia l’oggetto del ricordo: ci troviamo di fronte a un secondo dualismo che a sua volta riporta a quello precedente.
La radice del verbo greco è comune a quella di mémona, da cui l’equivalente latino di mimnésko, memini (perfetto logico, anche in questo caso il moto retrospettivo si fa sentire). Mémona però è un tempo di maíno, il quale vuole dire sì “impazzire”, significato che rimanda ad álgos, ma pure “impazzire per il desiderio di qualcosa” – e il cerchio si chiude con il nóstos di quel qualcosa.
A questo punto arriva in nostro aiuto la figura di Edipo: se è vero ciò che Platone credeva a proposito dell’apprendimento, cioè che esso non è nient’altro se non la riminiscenza di una vita prima della vita, allora, con la scoperta della verità da lui ricercata e col ritorno della memoria dei suoi peccati, Edipo prova tanto dolore da decidere di togliersi la vista.
Curioso invece che non si tolga la vita; infatti persino il termine ménos ha la stessa origine di mimnésko. Il suo significato è “forza d’animo”, “coraggio”, quello con cui Edipo decide di affrontare la propria condizione. Ma una della tante sfumature di ménos è “forza vitale”, “volontà”.
Il rapporto con il tempo
Quando riferiamo questa speculazione etimologica all’importanza che nella nostra vita ha il tempo, sorge spontanea una domanda: il ricordo del passato è ciò che ci fa sperare nel futuro e quindi continuare a vivere, ovvero è l’espressione di una sorta di Volontà shopenaueriana, oppure ci procura solo una profonda angoscia nei confronti della brevità della vita?
Se infatti è nella mens, la “mente”, di Edipo (notare l’assonanza con ménos) che si fa chiara una verità dolorosa, basterebbe forse non pensare per non subire gli effetti negativi dell’álgos di un tempo ormai passato, del rimpianto di scelte prese o di opportunità perse per l’aut-aut di cui parlava Kierkegaard, di fronte al quale ci pone lo scorrere del poco tempo a noi concesso?
Tutto funziona fintantoché trattiamo il tempo come noi lo percepiamo, una realtà imprescindibile. Ma appena mettiamo in discussione la sua esistenza paventando la possibilità che esso sia solo una nostra invenzione, oppure che la sua materia non possa essere da noi compresa se non in termini umani (mentre esso magari consiste in un eterno presente), crollano le fondamenta dell’intero discorso. Lo fecero Sant’Agostino e, in qualche modo, Kant, quando definì il tempo una delle categorie fisse attraverso le quali noi conosciamo la realtà fenomenica – e non la realtà in sè.
In effetti, l’Odissea è un poema particolare per la concezione del senso della vita che propone, almeno nell’universo ideologico greco arcaico. L’Iliade, da un certo punto di vista, è il suo opposto: il fine di ogni ricerca dell’eroe non è il passato fuggito, ma l’eternità tutta. Al nóstos si sostituisce il kléos, la “gloria” che avvicina l’uomo al dio. Il motivo di ciò è da ricercare nell’enorme varietà di modi che i greci utilizzavano per chiamare, e quindi pensare, il tempo: l’eroe si distingue dai comuni mortali, vittime dell’azione divoratrice del chrónos, proprio in quanto non soggetto alle sue leggi, bensì a quelle dell’aión eterno e circolare cui è destinato.
Elisa Ciofini
(In copertina annca da Pixabay)
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