Il percorso verso la Brexit si fa sempre più tortuoso: mentre la premier britannica Theresa May dichiara che il mancato raggiungimento dell’accordo sarà un tradimento della volontà popolare, la frammentazione del Parlamento appare ormai insuperabile. Le opposizioni respingono i piani alternativi del mercato comune, dell’unione doganale, perfino di un secondo referendum: il compromesso – ciò di cui il paese ha maggiore bisogno – sembra molto lontano.
Al Parlamento britannico ormai le stanno provando tutte ma dopo mesi di dibattiti e voti improduttivi le opzioni sono ancora tutte sul tavolo. Il 12 aprile, però, si avvicina e, se entro questa data non si troverà una soluzione, il Regno Unito uscirà dall’Unione Europea senza accordo.
Il 2 aprile Theresa May si è detta intenzionata a chiedere ai negoziatori europei di posticipare la data di scadenza ma non è certo che la risposta sarà positiva. Negli scorsi giorni il coordinatore del Parlamento Europeo sulla Brexit, il belga Guy Verhofstadt, ha dichiarato che l’uscita senza accordo è ormai “quasi inevitabile“. Della stessa opinione il capo negoziatore dell’UE Michel Bernier.
Intanto una petizione per annullare la Brexit ha raggiunto sei milioni di firme ma il governo ha risposto che intende “onorare il risultato del referendum” e andare avanti. Anche l’opzione di nuove elezioni si fa più probabile ma questo richiederebbe le dimissioni del governo in un momento di incertezza.
Insomma, fare previsioni è davvero impossibile a questo punto.
I voti indicativi
Dopo la seconda bocciatura dell’accordo di Theresa May, si è votato su una serie di emendamenti finalizzati a risolvere in qualche modo lo stallo. A sorpresa gli onorevoli hanno approvato l’emendamento Letwin con cui il Parlamento ha strappato al governo l’iniziativa su Brexit. Un evento più unico che raro nella politica anglosassone, sempre caratterizzata da forti esecutivi.
Si è quindi stilata una lista di opzioni, dal secondo referendum all’uscita senza accordo, sulle quali la Camera dei Comuni ha potuto esprimere un parere. Ancora una volta però l’esito è stato negativo. Nella prima sessione, tenutasi il 27 marzo, ogni proposta è stata respinta. La seconda sessione si è tenuta il 1 aprile e l’esito, seppur con qualche differenza numerica, è stato lo stesso.
La proposta più vicina all’approvazione, quella per il mantenimento dell’unione doganale (customs union), è stata bloccata per appena quattro voti (273 favorevoli, 276 contrari, 89 astenuti). Più lontane la proposta di un secondo referendum (280 favorevoli, 292 contrari, 66 astenuti) e quella del cosiddetto mercato comune 2.0 (261 favorevoli, 282 contrari, 95 astenuti).
Sonoramente bocciata invece la proposta di revocare l’articolo 50, azione che annullerebbe di fatto la Brexit (191 favorevoli, 292 contrari, 155 astenuti).
La maggioranza fantasma
In questa fase di trattative è emerso come principale problema quello dell’eccessiva frammentazione del Parlamento, una situazione in realtà presente da inizio legislatura. Nel 2017 Theresa May indisse le elezioni anticipate per ottenere una solida maggioranza che l’aiutasse a gestire agilmente le trattative anche in caso di ribellione tra le fila del suo partito, ma le urne non la premiarono e per proseguire si trovò obbligata a stipulare un controverso accordo con i nord irlandesi del Partito Democratico Unionista (DUP), formazione continuamente euroscettica e conservatrice.
Si può dire quindi che il destino delle trattative fosse segnato già due anni fa. L’accordo di May avrebbe per forza scontentato una parte della maggioranza, in questo caso quella più euroscettica. Alla prima votazione in Parlamento la premier ha subito la peggiore sconfitta nella storia della democrazia britannica (202 favorevoli, 432 contrari) a cui è seguita la seconda (242 favorevoli, 391 contrari).
Il 29 marzo Theresa May è arrivata perfino a promettere le dimissioni in cambio di un voto favorevole ma non è riuscita a spuntarla nemmeno così (286 favorevoli, 344 contrari). Al terzo tentativo il DUP, piccolo ma fondamentale, è rimasto contrario, così come un manipolo di conservatori irriducibili che considerano l’accordo svantaggioso.
Il comportamento delle opposizioni
Nel frattempo rispetto a gennaio il Partito Laburista ha cambiato approccio. La posizione opportunistica degli scorsi mesi aveva creato la falsa impressione che la chiave per risolvere l’impasse ce l’avesse proprio Jeremy Corbyn.
Il leader dei laburisti ha quindi dato ufficialmente indicazione di votare per diverse proposte tra quelle alternative al piano di May. Tra queste l’unione doganale, il mercato comune 2.0 (anche detto accordo Norvegia più) e perfino il secondo referendum, opzione, quest’ultima, richiesta a gran voce dalla base negli ultimi mesi.
Il leader dei laburisti ha quindi dato ufficialmente indicazione di votare per diverse proposte tra quelle alternative al piano di May. Tra queste l’unione doganale, il mercato comune 2.0 (anche detto accordo Norvegia più) e perfino il secondo referendum, opzione, quest’ultima, richiesta a gran voce dalla base negli ultimi mesi.
Il partito resta comunque diviso tra un’ala centrista anti-Brexit e un’ala più fedele al segretario che non disdegna una “soft Brexit“, cioè un’uscita dalle istituzioni europee che mantenga in vigore alcuni trattati.
Per quanto riguarda il resto dell’opposizione parlamentare sia i Liberal Democratici, sia il Partito Verde, sia gli indipendentisti scozzesi (SNP) e gallesi (Plaid Cymru) si schierano per un secondo referendum e si rifiutano di votare qualunque piano che preveda l’uscita dell’UE: non solo l’uscita senza accordo ma anche l’unione doganale e il mercato comune 2.0.
Il bisogno di un compromesso
Le opinioni possono cambiare e anche la demografia col tempo si evolve. Tuttavia, ignorare il risultato del referendum aprirebbe una frattura insanabile nella società britannica, una frattura ancora più ampia di quella già esistente. Minerebbe la fiducia dei cittadini verso lo Stato e le istituzioni democratiche, rischiando di accentuare le pulsioni violente e a tratti neo-fasciste tipiche dei nostri tempi.
Allo stesso modo, un’uscita senza accordo potrebbe rivelarsi molto dannosa. Non solo per le più o meno gravi conseguenze economiche che comporterebbe, ma soprattutto perchè decreterebbe la fine del Regno Unito come lo conosciamo oggi.
In caso di “no deal” infatti salgono di molto le possibilità che Scozia e Irlanda del Nord, regioni che votarono a maggioranza “Remain”, lascino l’unione tramite dei nuovi referendum per l’indipendenza. Ironia della sorte, proprio quei nazionalisti che sostengono in massa l’uscita senza accordo potrebbero produrre un effetto contrario a quello sperato.
In questo discorso però è da segnalare anche la posizione dei più oltranzisti anti-Brexit (SNP, Liberal Democratici, verdi, Plaid Cymru). Se anche una parte di questi avesse votato per uno dei piani alternativi proposti il 1 aprile, in questo momento buona parte dei privilegi che il Regno Unito avrebbe se rimanesse parte dell’UE sarebbe assicurata. Per il loro rifiuto di scendere a patti, invece, l’unico scenario a farsi più reale è il “no deal”.
Ciò di cui il paese ha più bisogno in questo momento è che i rappresentanti dei cittadini cerchino un compromesso onesto ed efficace, cercando di anteporre l’interesse del paese agli interessi personali e di partito. In questo modo qualunque decisione venga presa non ci saranno effetti drastici e, qualora nei prossimi anni i cittadini cambino idea, in un verso o nell’altro, il rapporto tra Regno Unito e Unione Europea potrà sempre essere rivisto.
Federico Speme
(in copertina, murales di Banksy in un edificio di Dover, da Repubblica)
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