Cultura

Una stanza tutta per noi

una stanza tutta per sé

A lungo le donne sono state confinate all’ambiente domestico, chiuse nelle proprie stanze, magari considerandosi privilegiate nel godere di uno spazio riservato, personale, tutto per loro. A volte le stanze sono diventate una prigione, altre hanno costituito un oblò sul mondo circostante, un punto di osservazione unico: proprio questo isolamento, questo astenersi dal mondo, scelto o dovuto, ha scavato nell’anima, vi ha aperto finestre, producendo arte, pensiero, capolavori.


Dicono che gli occhi siano una finestra sull’anima. E ci sono momenti in cui, oltre le tende delle iridi, il soffio di un pensiero scopre gli angoli nascosti di una vita rimpiattata. Solo l’osservatore attento però, quello che cammina con la testa per aria e che non crede alla terra su cui tutti invece poggiano saldi i piedi, è in grado di sbirciare l’attimo – e dicono anche questo, sì, che un attimo possa valere l’infinito.

Le anime delle donne sono un dentro oltre quegli occhi che nel corso della Storia, quella con la “S” maiuscola, in pochi hanno avuto il coraggio di sbirciare.

Ma anche un libro è una finestra sull’anima, una finestra che si apre e si chiude, come le palpebre: lasciano passare la luce, quando si aprono, perché le emozioni di un animo sensibile possono essere illuminanti, e perché un interno rinchiuso o solo inosservato è un esterno in cui sentirsi libere, in cui sentirsi se stesse; si chiudono al buio, quando riposano, per chiedere il silenzio del rispetto e il calore di un rifugio.

Una parola muore / quando è detta / Dice qualcuno / Io dico che proprio / Quel giorno / Comincia a vivere.

-Emily Dickinson

Sono innegabili i miglioramenti che ultimamente, in particolare nel mondo occidentale, hanno avvicinato l’universo femminile e quello maschile all’uguaglianza dei diritti e delle possibilità. Eppure, parafrasando Virginia Woolf, le donne hanno spesso dovuto fare i conti con le proprie stanze, fossero esse costruite su muri fisici o su spettri che molti preferivano ignorare.

Per il solo fatto di essere le “altre”, le diverse di fronte a una metà che esclude la restante – dentro o fuori.

Piccole stanze, grandi scrittrici

Non sempre le stanze hanno costituito un limite: in alcuni casi sono state il luogo di nascita di grandissime artiste, che hanno saputo vedere il mondo da prospettive alternative, le prospettive che si possono avere solo guardando giù dall’alto di una finestra.

E se è vero che anche i libri possono essere stanze, o occhi, molte scrittrici hanno donato la propria anima in opere che hanno segnato la letteratura: la maggior parte delle volte sono state delle rivelazioni, capolavori scoperti col tempo, magari solo dopo la morte delle loro autrici.

Penna e calamaio, immagine presa da Pinterest

Si potrebbe allora parlare di Saffo confinata sull’isola di Lesbo, di Mary Anne Evans serrata a chiave dietro lo pseudonimo maschile di George Eliot, di Anna Frank che aveva trovato il filo spinato a impedirle di crescere, o di tutte le scrittrici che non ebbero mai la fortuna di essere conosciute come loro. Ma in merito di stanze due autrici avrebbero da dire più delle altre.

Emily Dickinson e Alda Merini, poetesse, vissute a cento anni di distanza l’una rispetto all’altra, agli opposti del globo (vennero alla luce rispettivamente nel 1830 a Amherst, Massachussets, e nel 1931 a Milano), entrambe ebbero a che fare con forme di isolamento.

Per la prima l’isolamento risultò volontario e probabilmente fu condizionato dalla ribellione alle regole di una società troppo severa per apprezzare il suo anticonformismo; per la Alda invece fu una sorta di malattia che l’accompagnò per tutta vita e che iniziò ad eroderla piano piano con il successivo internamento in manicomio.

Dickinson e Merini: due vite difficili

Emily Dickinson, seconda di tre fratelli, nacque in una famiglia borghese puritana da Edward Dickinson, avvocato, e Emily Norcross. Frequentò l’Accademia di Amherst e il seminario femminile di Mount Holyoke, interrompendo qui gli studi dopo solo un anno, forse a causa del suo rifiuto verso l’orientamento fortemente religioso della scuola. Da allora non si mosse più dal luogo natale se non per un viaggio a Washington nel 1855 e per alcuni soggiorni a Filadelfia, Boston e Cambridge.

Anche la formazione di Alda, figlia secondogenita di Nemo Merini e di Emilia Painelli, terminò prima del previsto: nonostante i voti alti ottenuti durante gli studi alla scuola primaria, Alda fallì nella prova di italiano necessaria per accedere al Liceo Manzoni di Milano.

Come fin da giovanissima Dickinson trovò nella lettura e nella scrittura di versi uno sfogo alla consapevolezza di essere in qualche modo differente, così ben presto Alda si rese conto che il fatto di essere “nata il ventuno a primavera” poteva essere un problema. Già nel 1947, quando le fu diagnosticato un disturbo bipolare, trascorse un mese nella clinica di Villa Turro a Milano.

In un’intervista del 2004 nella quale racconta della sua infanzia in periodo di guerra, delle miserie al tempo dei bombardamenti e della nascita del fratellino per il quale fu lei ostetrica a soli dodici anni, allude alla sua fede nella “crudeltà di Dio”, un Dio “che ha creato persone deformi, senza fortuna”. Tre anni dopo l’internamento sarebbe riuscita a pubblicare i suoi primi componimenti con l’editore Scheiwiller, e stringerà amicizia con Salvatore Quasimodo.

Facendo di nuovo un passo indietro lungo quasi un secolo, sin dall’infanzia la breve vita di Emily Dickinson fu segnata da una serie di lutti che la impressionarono molto e che le instillarono nell’animo una forte paura verso la morte, centro tematico di molte sue poesie.

Abbiamo invece testimonianza dei rapporti che mantenne a partire dall’abbandono del seminario grazie alla fitta corrispondenza epistolare intrattenuta con amici e parenti, un intero corpus di lettere, un condominio di tante piccole stanze fuoriuscite dal circoscritto perimetro di Amherst dietro al quale la poetessa americana si era misteriosamente barricata.

Stanza tutta per sé
Emily Dickinson, foto scattata al College di Mount Holyoke nel cui archivio è stata ritrovata: immagine presa da Wikipedia

La maggior parte dei suoi scambi con l’esterno riguardavano amicizie personali o conoscenze utili alla sua produzione letteraria, come il colonnello e scrittore Thomas W. Higginson, cui aveva chiesto un parere sui suoi scritti, ricevendone poi un giudizio di totale ammirazione per la sua grande sensibilità.

Emily Dickinson non si sposò mai, tuttavia molte sono le supposizioni degli studiosi a proposito dei possibili innamoramenti non ricambiati o comunque non realizzati che potrebbero aver influenzato la sua esistenza, ad esempio quello con il reverendo Wadsworth, o quello con Samuel Bowles, direttore di un giornale che pubblicò alcune sue poesie, o addirittura in tarda età quello con il giudice Otis Lord.

Ad ogni modo, sappiamo che dal 1860 in poi la quantità di componimenti da lei scritti impennò vertiginosamente, in modo direttamente proporzionale a quanto il suo isolamento si andava inasprendo: alcuni sostengono che fu per la sua alienazione dalla vita sociale, altri per disturbi nervosi, altri ancora per patologie quali l’agorafobia e l’epilessia. Nel 1855 si confinò letteralmente entro le mura di una stanza, situata al piano superiore della casa paterna, fiduciosa nella ricerca della felicità ai quattro angoli della propria solitudine.

Un vuoto profondo

Si dice che i matti abbiano uno sguardo vuoto. Vuoto, perché le persone costruiscono muraglie pur di non addentrarsi dentro ai ripostigli dei loro occhi. È il vuoto del buio, non del nulla, è il vuoto di una pupilla che vede il sole a strisce bianche e nere, da dietro la finestra di una cella “tutta per sé”, ovvero senza nessun altro.

E senza nessuno ci si trova a fronteggiare le ombre che si annidano dietro gli stipiti delle porte e le creature da noi create contro di noi. Noi, che come Frankenstein dei nostri alter-ego, forse tremiamo così forte proprio perché quei figli ci assomigliano così tanto.

Allo stesso modo, per Alda, in seguito al primo matrimonio con Ettore Carniti, iniziò un periodo difficile. Le figlie, che furono allontanate dai genitori e affidate a nuove famiglie, ricordano (sul sito dedicato alla madre) come il padre a volte si fosse dimostrato violento nei confronti della moglie, che tuttavia lo amava e si struggeva per questo rapporto distorto. La donna venne internata più volte in manicomio, dove fu sottoposta a torture e soprusi di ogni genere. La frustrazione di quei momenti sarebbe sfociata più avanti nel lamento unisono delle poesie de La Terra Santa, le “creature” con cui si aggiudicherà il Premio Librex Montale nel ’93.

Stanza tutta per sé
Alda Merini: foto presa da Rai Ufficio Stampa

Dopo la morte di Carniti, nel 1984 si risposò con il poeta ed ex cardiologo Michele Pierri, insieme al quale poi si trasferì a Taranto. Lì venne ricoverata sempre per problemi neurologici nel 1986, stesso anno in cui uscì la sua prima opera in prosa, L’altra verità. Diario di una diversa. Tornò poi, d’improvviso, la serenità, quando Alda si ristabilì a Milano, una volta che ormai aveva raggiunto una certa fama letteraria.

Le figlie descrivono così il periodo: “continua a vivere come una clochard nella casa dei Navigli, in un passato sepolto sotto mille oggetti accumulati nel tempo, in una casa piena di libri, quadri e fotografie, dove i muri divengono la rubrica su cui scrivere i numeri di telefono, ed il pavimento è un mosaico di sigarette spente… un rifugio, nella foschia dei Navigli, per artisti, barboni o squattrinati, che le facevano visita.” Da allora pubblicò molte raccolte, tra cui Vuoto d’amore, La pazza della porta accanto e Ballate non pagate.

Se la mia poesia mi abbandonasse / come polvere o vento, / se io non potessi più cantare, / come polvere o vento, / io cadrei a terra sconfitta / trafitta forse come la farfalla / e in cerca della polvere d’oro / morirei sopra una lampadina accesa, / se la mia poesia non fosse come una gruccia / che tiene su uno scheletro tremante, / cadrei a terra come un cadavere / che l’amore ha sconfitto.

Alda Merini

Emily Dickinson morì di malattia, di enjambement, di trattini e di altri singhiozzi irriverenti il 15 maggio 1886. Solo dopo il decesso fu riconosciuto il valore della sua opera: delle 1800 poesie riscoperte dalla sorella, unicamente 7 le erano state già pubblicate. Alda Merini invece si è spenta dieci anni fa a Milano, l’1 novembre 2009.

Libertà e inchiostro

Al giorno d’oggi, se da una parte sono state superate alcune delle forme di disuguaglianza che un tempo impedivano alla donna di considerarsi al pari dell’uomo, è anche vero che spesso siamo ciechi di fronte alle strumentalizzazioni cui la società dell’immagine sottopone il corpo della donna: anch’esso è considerabile come una stanza, un confine che separa il dentro dal fuori, e alla stessa maniera va protetto, perché può essere un simbolo di indipendenza ma anche trasformarsi in una prigione imposta.

Dire che Dickinson e Merini furono solo esempi di ciò che tante altre donne hanno fatto e che hanno vissuto, o addirittura sofferto, sul grande palcoscenico dell’arte internazionale o dall’alto di un balcone di un appartamento, sarebbe riduttivo, come in fondo è riduttivo il trattamento che riservano i libri alla Storia. Possiamo dire al contrario che sono un esempio di ciò che tante altre donne possono fare e del coraggio che possono avere.

Stanza tutta per sé
Il giardino di Emily Dickinson: immagine presa da Rivistanatura

Le guerre si decidono nelle stanze degli strateghi, ed Emily e Alda hanno combattuto contro l’assedio delle paure altrui verso il diverso e di quelle proprie verso se stesse, serrate nelle stanze della loro libertà, armate di inchiostro e della propria femminilità.

Hanno messo nero su bianco opere che sono gli occhi di cui nessuno si era accorto. Occhi che si aprono e chiudono nel battito di una farfalla, che contengono l’energia per “scatenar tempesta” e spiccare il volo come “quella cosa con le ali” che è la Speranza.

Ma le farfalle a volte, come tutti, possono essere fragili, e mirare al cielo ma finire per bruciarsi su una lampada. Devono aprire gli occhi e capire che è proprio il loro sguardo a possedere la luce del sole.

Elisa Ciofini

(in copertina, Il falso specchio di rene Magritte, immagine presa da Villegiardini)


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