Musica

Un accordo dissonante nella storia della musica


Il compito dell’artista è rispecchiare i tempi. Nell’arte, quindi, possiamo trovare uno stampo di ciò che siamo e di ciò che eravamo, e la musica non fa eccezione. Un ammasso di note e parole che, se messe nel giusto ordine, è in grado di farci provare qualcosa. La musica coinvolge tutti, eppure non per questo tutti possono fare musica. O meglio, non tutti sono liberi di far conoscere la loro arte agli altri.


A ognuno il suo genere, a ognuno la sua playlist, a ognuno il suo strumento: la musica è di tutti e nessuno può rimanere completamente indifferente davanti a una bella canzone. Tuttavia, non tutti hanno il diritto di inseguire i propri talenti.

Le pari opportunità, purtroppo, non ci sono, in questo campo come in molti altri, e i motivi sono i più disparati: lo stato sociale, il reddito, il colore della pelle, il sesso. Quante donne non vengono considerate per il semplice fatto di essere donne? Fa piacere vedere che, seppur lentamente, qualcosa stia cambiando, ma è normale che dopo tutto questo tempo ancora il problema persista?

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Foto: Nainoa Shizuru/Unsplash.

Nel corso della storia, la musica ha conosciuto i nomi di molte donne, e tutte hanno dovuto faticare per guadagnarsi la fama e, prima ancora, il rispetto. Al giorno d’oggi la lotta per l’affermazione femminile è forse passata in secondo piano, data per scontato.

Se la situazione ora non è più così tragica, è solo perché altre donne prima di noi hanno lottato attraverso le loro parole e la loro musica per costruirsi – e costruirci – delle possibilità. Urlare armoniosamente i propri diritti sembra una buona soluzione a un problema che crea tanta disuguaglianza.

Diritti in musica

L’apice della musica di protesta è forse stato raggiunto verso la metà del secolo scorso da Eunice Kathleen Wayman, vero nome di Nina Simone. Oggi questa cantante è riconosciuta come il simbolo della lotta razziale e le sue canzoni come inni ai diritti civili, ma di certo non è stato facile per Nina diventare quella che è stata.

You can’t help it. An artist’s duty, as far as I’m concerned, is to reflect the times.

Nina Simone

Nina Simone nasce in North Carolina nel 1933, un luogo e un’epoca non proprio accoglienti per chi non ha la pelle bianca. Si accorge presto del clima di disuguaglianza che impregna l’aria che respira. Nessuno ne parla, né in famiglia né in chiesa né tra amici, ma è impossibile da ignorare. Fin da bambina, Nina mostra un incredibile talento per la musica, tanto che a sei anni inizia a suonare il pianoforte, con il sogno di fare della sua passione una professione.

Crescendo, i pregiudizi vengono percepiti sempre di più: a dieci anni, durante la sua prima esibizione pubblica, Nina si rifiuta di continuare a suonare perché i suoi genitori, in quanto neri, sono stati spostati nelle ultime file della platea.

Nina Simone
Foto: Getty Images (Vanity Fair).

Qualche anno dopo, in seguito a un brillante provino per entrare nel prestigioso Curtis Institute di Philadelphia, non viene ammessa con la motivazione che altri pianisti più bravi di lei hanno preso il suo posto. Roger Nupie, amico e fan, farà notare però che non ci sono “studenti neri di musica classica al Curtis Institute, né tanto meno studentesse nere”.

Tuttavia, il talento di questa donna non è disposto ad essere sottomesso: nel 1958 Nina debutta come cantante e inizia a farsi conoscere per la sua voce potente e le sue canzoni dai testi di denuncia, fino a firmare cinque anni dopo un contratto con la Philips.

La sua musica, generalmente considerata come Jazz, spazia in realtà tra molti generi, come il Soul, il Blues, il Folk e il Gospel. Nina si accorge di avere, attraverso la sua arte, la possibilità di mostrare al mondo intero le origini ormai dimenticate dell’intero popolo nero.

Il fardello della donna nera

Mentre il suo nome inizia a farsi strada tra le stazioni radio, i suoi sentimenti si avvicinano sempre di più al movimento per i diritti civili e al femminismo: infatti è convinta – e a ragione – che il sogno di diventare una pianista classica era stato ostacolato solo dal suo essere donna e nera.

Nel 1964 canta “Mississippi Goddam“, in reazione all’omicidio avvenuto a Birmingham di quattro ragazze nere, e “Pirate Jenny“, canzone tratta da “L’opera da tre soldi” di Bertolt Brecht, interpretando la protagonista, che nella storia è una prostituta di colore che viene ingannata, ma Nina modifica la storia facendola diventare il simbolo della rivoluzione nera, una donna che incita alla lotta per i diritti civili.

L’anno dopo esce “Four Women“, un’analisi degli stati d’animo e delle reazioni di quattro donne nere soggette alla società di quel periodo.

Le protagoniste rappresentano tutte le donne di colore e non, schiave del loro aspetto fisico e della loro condizione sociale.

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Foto: Getty Images (AmericanSongWriter)

Nina stessa si ritrova nei suoi testi: la musica per lei non è solo un modo per parlare agli altri, ma anche per imparare ad accettare se stessa. L’apice del femminismo afroamericano è forse raggiunto nel 1969 con “To be Young, Gifted and Black“, in memoria di Lorain Hansberry, un’amica attivista scomparsa nel 1965.

La lotta all’emancipazione femminile non è per Nina solo una questione sociale, ma anche personale: non mancano nella sua vita rapporti travagliati con uomini potenti e violenti, tra cui il marito, dal quale si separa per iniziare a viaggiare. Scomparendo momentaneamente dalle scene, si apre per lei un periodo tanto di scoperta quanto di solitudine, che disorienta l’umore già instabile della cantante fino a una vera e propria diagnosi di depressione.

Nel 1987 Nina riconquista le prime posizioni delle classifiche mondiali con “My Baby Just Cares For Me” dopo che Chanel utilizza la canzone, vecchia di ormai trent’anni, per una sua pubblicità. Il fatto che a riportare sotto i riflettori un’artista del calibro di Nina Simone sia una casa di moda sembra andare contro gli ideali nascosti dietro la sua musica. Certo è che, anche senza l’aiuto di Chanel, di Nina non ci saremmo dimenticati.

Il peccato dell’arte

Molte donne dopo di lei hanno seguito il suo esempio, ma purtroppo non tutte sono davvero riuscite a sfondare il muro dei pregiudizi sessisti. Una di queste si sta facendo strada in un mondo così difficile proprio negli ultimi anni: Fatoumata Djawara.

Nata nel 1982 in Costa d’Avorio, Fatoumata si trasferisce presto in Mali, paese d’origine dei genitori.

Si tratta quindi, sempre, di una donna dalla pelle nera, nata e cresciuta però in un contesto molto diverso da quello di Nina.

In comune le due hanno lo smisurato amore per il proprio popolo e la forte determinazione a intervenire nelle ingiustizie del loro mondo.

In Mali l’essere neri non è ovviamente un motivo di discriminazione, ma l’essere donna sì.

Nina Simone
Fatoumata Diawara. Foto: Wikimedia.

Essere una donna musicista, poi, è qualcosa di inconcepibile, non per la tradizionale mentalità maliana, ma per quella più recente dei fondamentalisti islamici.

Nel 2012, i ribelli islamisti hanno occupato il nord del paese imponendo la sharia e tutte le regole che comporta. Tra esse, si trova anche una categorica condanna a qualsiasi tipo di musica, ad eccezione dei canti religiosi, in particolare se di influenza occidentale e se proveniente da apparecchi elettronici. Si dice che abbiano perfino vietato le suonerie dei cellulari.

Essere musicisti, quindi, non solo è proibito, ma addirittura peccato, poiché consiste nel trarre guadagno da qualcosa che la sharia disapprova. La condizione di Fatoumata è più complicata anche per via del suo sesso: il ruolo della donna, secondo la sharia, va principalmente limitato a quello di casalinga.

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Fatoumata Diawara. Foto: RomaEuropa.

Anche prima del 2012, questa era la prassi in Mali: è per questo che, quando nel 1997 viene notata da un cineasta, è costretta a trasferirsi in Francia per far decollare la sua carriera di attrice.

La vera svolta avviene però quando prende in mano la chitarra e inizia a scrivere canzoni. Come qualsiasi altro musicista maliano, non permette che un divieto estirpi la grande tradizione musicale del suo paese. In Mali, infatti, esistono da sempre le figure dei Griot, una sorta di corrispondenti degli aedi dell’Antica Grecia, che con i loro canti hanno plasmato la società e la storia del paese.

Fatoumata combatte questo attentato all’identità del suo popolo con la forma artistica che meglio lo caratterizza, la musica. Allo stesso tempo, fa valere il suo essere donna, dimostrando come molti dei pregiudizi che l’Occidente ha dell’Africa sono in realtà infondati.

La stonatura del pregiudizio

Da qualche tempo Fatoumata gira il mondo in tour, proponendo concerti dalla musica tanto piacevole quanto impregnata di significato. Intervalla i pezzi con discorsi dalla forte impronta di critica politica e sociale, mantenendo però sempre il sorriso sulle labbra. Come Nina, è consapevole che attraverso la sua arte ha il potere di comunicare con il mondo, e non si lascia certo sfuggire questa possibilità.

Molte altre, oltre Nina e Fatoumata, hanno lottato e lottano tuttora per una disuguaglianza che ha già fatto abbassare la testa a fin troppe donne che avevano qualcosa da offrire: una stonatura in un mondo così armonioso quanto solo quello della musica può essere.

Ascoltando un brano, nessuno di noi tollera una nota fuori posto, eppure questa dissonanza che raggiunge quotidianamente l’orecchio di milioni di ascoltatori viene ignorata dalla quasi totalità di essi. Dovremmo essere tanto critici nei confronti dei nostri pregiudizi quanto lo siamo verso la musica che ascoltiamo.

Clarice Agostini


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