Lo scorso 3 marzo, un anno dopo le elezioni politiche, gli iscritti e i simpatizzanti del più grande partito di centrosinistra italiano hanno votato per scegliere il nuovo segretario. Prima della votazione gli organizzatori sono stati molto cauti con le aspettative, dichiarando che sarebbero stati già soddisfatti se si fosse superato il milione di partecipanti. Tuttavia l’affluenza per queste primarie è stata più alta del previsto. I dati ufficiali non sono ancora disponibili ma si stima che abbiano preso parte al voto almeno un milione e seicentomila persone. Rispetto alle scorse primarie, quelle che nel 2017 incoronarono di nuovo Matteo Renzi, il calo c’è ma è molto lieve e per nulla paragonabile al crollo elettorale del partito.
Una vittoria schiacciante
Il vincitore, come previsto, è stato Nicola Zingaretti. Il governatore del Lazio era considerato da tutti il favorito ma c’era qualche timore che potesse non superare il 50% necessario per la vittoria immediata. Il regolamento del Partito Democratico prevede infatti che qualora nessuno dei candidati raggiunga la maggioranza nel voto popolare la decisione spetti al congresso, cioè l’assemblea interna composta di delegati fedeli ai candidati in numero proporzionale ai voti da essi raggiunti alle primarie. Uno scenario simile avrebbe preoccupato Zingaretti che, pur vantando il sostegno di dirigenti importanti, è sostanzialmente un “outsider”, cioè uno che fin qui non ha mai preso parte alle lotte interne al partito. Ma i timori della vigilia sono subito svaniti appena sono stati diffusi i primi dati. Con Zingaretti si sono schierati più del 60% dei votanti conferendo al neosegretario un mandato molto solido. Débâcle pesantissima invece per i suoi avversari Maurizio Martina, 23%, e Roberto Giachetti, 13%.
Chi è Martina
Martina è stato per anni un alleato di Renzi, ha fatto il ministro nel suo governo ed è stato eletto vicesegretario del partito alle primarie del 2017 quando i due presentarono una candidatura congiunta. Dopo la sconfitta del 4 marzo e le dimissioni di Renzi ha quindi assunto il ruolo di segretario provvisorio con l’incarico di guidare il partito fino alle successive primarie. Durante questo periodo, Martina ha cercato, senza grandi successi, di rimettere in moto il PD offrendo un timido messaggio di discontinuità. Il problema di Martina è che sia durante la sua breve leadership sia durante la corsa alle primarie non è mai riuscito ad avere una collocazione chiara agli occhi degli elettori. Una critica netta alla gestione precedente non sarebbe mai stata credibile se uscita dalla bocca di uno che di quel periodo è stato uno dei maggiori interpreti. Allo stesso tempo però, il tentativo di lasciarsi alle spalle gli anni passati non è piaciuto agli elettori ancora fedeli all’ex premier.
Chi è Giachetti
Per quanto riguarda la collocazione politica, un candidato invece facilmente inquadrabile è stato il “renziano” Giachetti. Una variegata carriera la sua, prima nei radicali poi ai Verdi e infine alla Margherita, soggetto costitutivo del PD. Il deputato romano, ancora oggi membro del Partito Radicale Transnazionale, non ha mai avuto grosse fortune elettorali. Molti lo ricordano per la bruciante sconfitta alle elezioni comunali del 2016 quando si candidò a sindaco di Roma. In quell’occasione Giachetti riuscì a raggiungere il secondo turno ma venne surclassato da Virginia Raggi, eletta con il 67%. Si può dire forse che da quella batosta Giachetti designò il Movimento 5 Stelle come suo principale nemico. Uno dei temi chiave della sua proposta politica in queste primarie è stato proprio il rifiuto a ogni dialogo con i pentastellati. Linea politica in perfetta continuità con quella di Matteo Renzi, della cui esperienza di governo Giachetti rivendica orgogliosamente ogni aspetto. Una persistenza che unita alla carenza di personalità non ha saputo fare breccia nell’elettorato del partito.
I piani di Renzi
Ma per comprendere appieno le dinamiche interne al Partito Democratico bisogna esaminare almeno altri due personaggi. Il primo di questi è proprio Renzi. L’ex segretario, volente o nolente, è ancora al centro del dibattito interno. Un po’ perchè con lui il PD ha ottenuto i suoi migliori risultati (ma anche le peggiori sconfitte) e un po’ perchè a livello mediatico ha sempre eclissato tutti i colleghi. Così come Zingaretti è considerato il candidato anti-renziano, Giachetti è un renziano di ferro. Può quindi il risultato delle primarie sancire la fine del cosiddetto “renzismo”? In realtà la risposta non è così facile. Quasi sicuramente il renzismo può dirsi archiviato all’interno del PD, ma non è per nulla impossibile che in un futuro prossimo questo riacquisti sostanza al di fuori del partito. L’ex premier infatti non ha voluto impegnarsi in prima persona nelle primarie e da quando ha lasciato la segreteria mantiene un basso profilo in attesa del momento adatto per fare la prossima mossa. Sui suoi profili social si descrive solo come “senatore di Firenze” e anche nel nuovo libro “Un’altra strada”, i riferimenti al PD non abbondano. È evidente che Renzi e i suoi fedelissimi progettano di fondare un nuovo partito liberale, una sorta di En Marche italiano che potrebbe venire alla luce già dopo le europee.
I piani di Calenda
L’unico che potrebbe soffiargli la parte di Macron italiano è forse Carlo Calenda. L’ex ministro dello sviluppo economico ha un profilo molto più simile al presidente francese. È stato uno dei pochi ministri popolari di un governo severamente bocciato alle urne e al contrario di Renzi, la cui carriera politica è ormai compromessa, si può considerare una faccia nuova. Anche lui è rimasto super partes alle primarie ma l’ha fatto per coltivare un disegno più profondo. Calenda ha infatti lanciato in gennaio il manifesto “Siamo Europei”, progetto volto a unire tutte le forze politiche progressiste sotto la bandiera dell’europeismo. Ad esso hanno aderito in poco tempo centinaia di migliaia di cittadini e quasi tutti i principali dirigenti del Partito Democratico compresi i tre candidati alla segreteria. Per adesso questo progetto non ha trovato molti alleati al di fuori del partito (Verdi e più Europa hanno rifiutato) ma non è detto che il manifesto di Calenda non possa fungere da base per un futuro allargamento del PD o per un progetto autonomo.
Cosa aspettarsi da Zingaretti
Il prossimo appuntamento elettorale sono le elezioni europee in programma per il 26 maggio. Zingaretti è noto per essere stato in grado di vincere anche in condizioni avverse per il suo partito ma questa volta ha un compito davvero arduo. Riportare in alto il PD sembra un’impresa impossibile considerato che il consenso della Lega è raddoppiato rispetto alle scorse elezioni e ancora non si appresta a calare. Per essere un’alternativa credibile al governo giallo-verde è necessario un percorso di profondo rinnovamento, molto più ampio di quanto promesso fin adesso dal neosegretario. Durante la campagna per le primarie i suoi avversari hanno definito Zingaretti troppo di sinistra, portatore di idee vecchie e troppo vicino ai fuoriusciti dal partito. La verità però è che questo cambiamento di passo si è espresso più che altro tramite vaghi annunci, nulla di più. Al confronto televisivo tra i candidati trasmesso su Sky Tg 24 Zingaretti ha voluto ribadire il suo “no” a una tassa patrimoniale (calcolata cioè in proporzione al patrimonio del contribuente) e nel discorso d’elezione ha insistito sul “sì” alla TAV. Posizioni che smentiscono categoricamente la cosiddetta svolta a sinistra annunciata dai media. L’elezione del governatore del Lazio è il segnale che il popolo del centrosinistra ha bisogno di novità, ma se le intenzioni non si tradurranno presto in proposte significative concrete allora Zingaretti avrà poco di cui festeggiare.
Federico Speme